Pubblicità
Economia
aprile, 2020

I tir bloccati dall'emergenza coronavirus: ma se si ferma il trasporto merci il sistema collassa

AGF-EDITORIAL-2721425-jpg
AGF-EDITORIAL-2721425-jpg

Code alle frontiere, controlli improvvisi, norme ignorate. I viaggi degli autoarticolati con a bordo merci indispensabili si fanno sempre più difficili. Ed è un rischio altissimo per la tenuta della quarantena

AGF-EDITORIAL-2721425-jpg
«Sei ore al confine tra Austria e Germania, quasi cinque per attraversare la Manica. E tornare indietro, dopo il “lockdown”, sarà ancora più dura». Michele Zuppel da una settimana cavalca un Tir lungo 18 metri attraverso l’Europa dei muri. Ogni giorno le barriere diventano più alte. Fermano i camion ma non il contagio: «Il virus non conosce confini, ma qui a Luton non si rendono conto. Mi dicono “italiano infetto”», spiega al telefono dai sobborghi di Londra.

Duemila chilometri più a sud, a Fondi, provincia di Latina, è vietato entrare e uscire. Troppi contagi, è la prima zona rossa del Lazio. Qui però c’è il mercato ortofrutticolo principale d’Italia, il secondo più grande del Continente. Gli ingressi sono contingentati e dopo avere superato l’esame della febbre, Gianni Di Girolamo aspetta altre due ore prima di ingranare la marcia con un carico di «arance, pomodori e tanta preoccupazione».

Forse Gianni e Michele non se ne rendono conto, ma sono indispensabili contro il virus. Se il cibo non arriva nei supermercati, la gente rinchiusa in casa non mangia. Se gli ospedali non ricevono farmaci, medicine e ricambi, la speranza di fermare il male si dissolve. E l’80 per cento delle merci in Italia viaggia su camion come i loro, grazie a 110mila le imprese, quasi un milione i lavoratori. Anche se questa non è una guerra, la logistica è fondamentale: se la prima linea non riceve pasti e munizioni, allora tutto è perduto. E lo è anche se le fabbriche che li producono non ottengono rifornimenti.

Nel distretto biomedicale di Mirandola si lavora senza sosta per costruire i caschi da ventilazione che danno ossigeno a chi non riesce più a respirare, ma ogni sforzo risulta vano se non consegnano i filtri fabbricati in Lituania. Senza questi pezzi minuscoli, il macchinario è inutile: basterebbe ricevere un paio di scatoloni. Due mesi fa, una telefonata allo spedizioniere avrebbe risolto. Adesso è tutto complicato. Gli americani per trasferire negli States il mezzo milione di tamponi comprati da un’azienda bresciana hanno messo in azione il Pentagono: un quadrimotore militare li ha imbarcati nella base di Aviano, poi a tutta velocità oltre l’Oceano. Trovare posto su un aereo civile è un’impresa. «Nelle stive dei voli passeggeri viaggia il 60 per cento delle merci e gran parte delle compagnie di linea adesso sono a terra. Per far fronte alle cancellazioni per e da Cina e Usa abbiamo attivato un servizio charter in modo da limitare le ripercussioni, ma sarà difficile gestire tutto l’accumulo», spiega Giulio Serra, a capo del marketing e sviluppo business di Dhl Global Forwarding Italia.

Con la chiusura delle frontiere, poi, le dogane sono diventate una trappola. Abbiamo carenza di mascherine, fondamentali per proteggere medici e infermieri, ma nonostante siano state già pagate rimangono bloccate in Polonia, Repubblica Ceca, Turchia. In alcuni casi vengono intercettate e requisite dai governi. L’Italia vuole rilanciare l’autarchia, come ai tempi del fascismo, ma per produrle servono le materie prime. Molte arrivano via mare e nei porti già si registra un sensibile calo di arrivi dei container.

«Inoltre ci siamo mossi tardi, le disposizioni sono arrivate solo il 20 marzo e intanto ognuno è andato avanti in modo autonomo con un impatto sulla distribuzione” segnala il presidente di Federlogistica Luigi Merlo. Basti pensare ai 400 tir in fila a Genova che attendono di caricare. E non va meglio sui confini stradali. A Gorizia il valico di Sant’Andrea-Vrtojb è diventato un’enorme coda. Qui sembra finire la corsa di tutti i camion diretti a Est. Lo spiazzo dell’interporto è una distesa di lamiere. Veicoli croati, rumeni, bulgari, un melting pot di disperazione con autisti accatastati e stalli esauriti. «Il trasporto su gomma è praticamente paralizzato. Sono necessari dei protocolli urgenti. Altrimenti ci saranno problemi di approvvigionamento», si sfoga Matteo, dieci anni di esperienza al volante e un figlio piccolo che spera di rivedere.

Le autorità slovene praticano controlli serrati, ma il respingimento di un autotrasportatore con la febbre a 40 ha scatenato le ire del sindaco isontino Rodolfo Ziberna: anziché trattenerlo e allertare le autorità, l’hanno fatto rientrare in Italia rischiando di innescare un focolaio incontenibile. Al Brennero s’è formato un serpentone lungo 90 chilometri. Chi in una settimana faceva due viaggi oggi si limita a uno perché i tempi si sono allungati di tre giorni. Far salire i Tir sui treni? I guidatori raccontano di essere stipati in un unico vagone con poche precauzioni. «Eppure da qui esce un quarto della produzione italiana e per ogni ora di ritardo la nostra economia così paga più di 370 milioni di euro all’anno. Per i maggiori tempi su rotaia altri 100», tuona Paolo Uggè vicepresidente di Conftrasporto-Confcommercio.

Il Covid-19 stravolge il movimento delle merci in tutta Europa. Poco importa che la Commissione Ue chieda agli Stati di evitare misure che compromettano il mercato comune. È il trionfo del sovranismo: ognuno si ripara dietro divieti, restrizioni e chiusure. I ministri dei trasporti hanno promesso corridoi rapidi attraverso l’Unione per beni di prima necessità e attrezzature mediche, ma finora hanno garantito linee guida che funzionano solo sulla carta. «La realtà è un Far West in cui ognuno se l’aggiusta: in Spagna impongono percorsi alternativi, in Francia il datore deve compilare un foglio assumendo la responsabilità. Da noi si può posticipare la revisione dei mezzi, ma non vale all’estero dove ci possono bloccare», racconta Maurizio Longo, segretario generale di Trasportounito, associazione nazionale di autotrasporti che rappresenta 2.500 aziende.

Camion con animali bloccati tra Germania e Polonia, alimenti che marciscono dentro 15 chilometri di Tir al confine sloveno-croato, mezzi che per entrare in Ungheria devono cambiare autista. Una rappresentazione drammatica delle divisioni, con tanto di «supermarket polacchi che chiedono certificazioni supplementari se frutta e verdura arrivano dall’Italia. Non possiamo accettare queste discriminazioni. I problemi italiani diventeranno presto problemi europei», ragiona Pekka Pesonen, segretario di Copa e Cogeca, le organizzazioni degli agricoltori e delle cooperative agroalimentari Ue.

E poi ci sono i provvedimenti che spuntano in serata e senza preavviso. «Dopo la stretta proclamata dal governo sabato notte sono stato sommerso dalle chiamate di chi aveva già caricato i mezzi e non sapeva se partire o meno per la paura di trovare chiuso il luogo di scarico», denuncia Stefano Adami, leader degli autotrasportatori di Confartigianato del Friuli Venezia Giulia. Si chiude o forse no e non si sa nemmeno in quali termini. «La logistica è arte matematica, calcolo di tempi certi. Sono necessarie azioni coordinate.

In migliaia stanno lavorando con sacrificio e competenza, ma non possiamo tenere le celle frigo ferme nei piazzali e riprogrammare continuamente i viaggi», chiarisce il direttore dell’Associazione logistica dell’intermodalità sostenibile, Marcello Di Caterina.

Altri protestano, si rifiutano di lavorare in queste condizioni. Il rischio è di bloccare la distribuzione, tanto che il Viminale ha invitato i prefetti a trovare «misure di mediazione o di dissuasione per prevenire le criticità». Di fronte all’emergenza, altri Stati si sono subito preoccupati di inventare la supervisione dei trasporti. A Londra hanno affidato la missione all’ex capo della logistica di Nestlé, a Washington sono stati messi in allerta i militari. In Italia si procede alla giornata, delegando tutto a livello locale.

Con undici tonnellate di motrice e quindici di zucchero sotto il telone, Fabrizio Fraioli spiega che ad aumentare non sono solo le code, ma anche i rischi. «Si sa quando si parte e non come e se si ritorna. Trovi il centro di scarico chiuso senza alcun preavviso. Oggi una colonna indescrivibile per la consegna della bolla. Tutti sparpagliati nel piazzale a distanza di sicurezza, poi entriamo nel magazzino toccando le attrezzature senza protezione. Che senso ha?». Alla fine gli danno un gel per pulirsi le mani, mente altri negano l’accesso ai servizi igienici senza mettere a disposizione bagni chimici «eppure insistono a dirci di lavare le mani…».

La Penisola desolata e irriconoscibile scorre dai finestrini, corpi di case, di città, le retrovie di un paese in isolamento. Autostrade per l’Italia, che copre la metà della rete, nella seconda settimana di marzo registra un calo di quasi il 60 del traffico di veicoli e del 4,6 di quello pesante. Spiegano di aver reso fruibili h24 le aree di servizio e potenziato la sanificazione. «Per giorni però non potevamo andare nemmeno in bagno, avevano chiuso tutto come se fossero dei pub. Ora alcune sono aperte, altre le troviamo sbarrate dopo le 18», racconta Fraioli. In sosta a bordo della carreggiata, gli autisti si versano l’acqua l’un l’altro sulle mani in un parcheggio. A molti mancano guanti e mascherine e Alleanza delle Cooperative Italiane Servizi ed Utilities lancia l’allarme: «Può non essere garantito lo svolgimento del trasporto e scorta valori per banche e poste. Le imprese rischiano una denuncia per interruzione di pubblico servizio, ma non possono far lavorare le persone senza protezione». E sono loro che devono rifornire i bancomat, sventando la crisi di liquidità dei cittadini. I sindacati invocano la sicurezza perché, chiarisce il segretario nazionale Uiltrasporti Marco Odone, «molti corrieri non riescono a igienizzare il mezzo a fine turno e pur di mantenere il ritmo di consegna alcune aziende chiedono di acquisire manodopera anche senza formazione specifica».

Paolo è in marcia lo stesso, «per senso civico». Carica ogni mattina latte e formaggi e fa il giro di supermercati e panifici. «Il titolare sono tre settimane che cerca le mascherine, non è colpa sua, ma quando nei paesini vedo le persone anziane in fila, in silenzio, penso che anche io sono necessario». Luciano invece consegna gasoli e carburanti a ospedali e caserme. È sardo, arrivato in Friuli da ragazzo per la ricostruzione dopo il terremoto del 1976: «Faccio questo lavoro da più di trent’anni, mia moglie è un’infermiera. Sono loro in prima linea, io do solo una mano e faccio il mio dovere».

Pochi giorni fa è stato diffuso anche un nuovo vademecum: «Scendere il meno possibile dalla cabina, mantenere la distanza dagli altri. I corrieri lasceranno il pacco a terra e non sarà richiesta la firma per la ricezione. La ministra dei trasporti Paola De Micheli ha assicurato che le mascherine arriveranno», illustra Ivano Russo, direttore generale di Confetra, confederazione generale dei trasporti e della logistica. Intanto Ahmed con la sua bici corre lungo le strade di San Giovanni a Roma. Sono passate da poco le sei di sera e dai balconi risuona l’Inno di Mameli. La mascherina se l’è costruita con il tessuto. Porta pasti e spesa, Ahmed dal Gambia. È l’ultimo della catena. Fino a poche settimane fa in sella c’era anche Angelo Avelli poi ha deciso di smettere «non mi hanno dato mascherine, guanti, disinfettante. Nulla e non sono coperto nemmeno per la malattia. Non so come farò, ho l’affitto da pagare, ma la mia salute e quella degli altri vengono prima».

Dopo due giorni Gianni è tornato ad Anagni con un carico di banane. Michele è ancora in coda. Alla radio la quotidiana conta dei morti, attorno il silenzio di una comunità disorientata.

L'edicola

In quegli ospedali, il tunnel del dolore di bambini e famiglie

Viaggio nell'oncologia pediatrica, dove la sanità mostra i divari più stridenti su cure e assistenza

Pubblicità