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Al mercato dei bonus: così le regioni fanno concorrenza al governo per comprare consenso

di Vittorio Malagutti   14 maggio 2020

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In Campania, Lazio, Piemonte, Liguria. Per pensionati, colf, ambulanti, albergatori. Aiuti che spesso si sovrappongono a quelli dello Stato. Ma che a volte arrivano prima

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Vincenzo De Luca ha fatto le cose in grande. Tra una sfuriata contro i runner per necessità («cinghialotti») e un avvertimento agli irriducibili delle feste in tempi di lockdown («vi mando i carabinieri con il lanciafiamme»), nei mesi dell’emergenza il presidente della Campania ha dato fondo all’arsenale dei sussidi. Ce n’è per tutti: professionisti, agricoltori, commercianti, microimprese, stagionali del turismo, famiglie, disabili. A ognuno il suo bonus. Paga la Regione: 900 milioni «per intervenire sui nodi profondi della crisi», si legge nel documento che illustra il “piano economico sociale” varato dalla giunta De Luca. E poco importa se i contributi dell’ente locale finiscono per sovrapporsi ad analoghi interventi varati a livello nazionale. In Campania, per dire, i professionisti iscritti alle casse previdenziali autonome (architetti, ingegneri, avvocati e altri ancora), così come le partite Iva, hanno diritto a mille euro una tantum. Questo sussidio si aggiunge ai 600 euro al mese previsti fin da marzo in base ai decreti governativi.

Soldi in arrivo anche per i pensionati. De Luca offre un contributo mensile per integrare l’assegno dell’Inps fino alla soglia dei mille euro. Una misura straordinaria, motivata dall’emergenza Covid, anche se non è chiaro in che modo l’epidemia dovrebbe dare un taglio alle pensioni minime, che erano basse già prima dell’arrivo del coronavirus e tali resteranno anche quando, speriamo presto, se ne sarà andato. I bonus però, come De Luca sa bene, creano consenso. E per un presidente a caccia della riconferma alle prossime elezioni regionali, in autunno o forse addirittura a luglio, diventa difficile resistere alla tentazione di moltiplicare aiuti e aiutini. Intanto la confusione aumenta, perché anche a Roma ciascun ministro ha la sua lista dei desideri, che fin dal primo decreto di marzo dopo infinite mediazioni si sono tradotti in provvedimenti ad hoc destinati a soddisfare le richieste delle diverse categorie. In mancanza di un piano complessivo, le norme si accumulano in una babele legislativa difficile da decifrare.

Il cosiddetto decreto rilancio, al centro nelle scorse settimane di un faticosissimo negoziato, ha riveduto, corretto e integrato i provvedimenti già previsti a marzo e aprile, aggiungendone di nuovi. Ecco, allora, la maxi detrazione per le ristrutturazioni edilizie, il credito vacanze per rilanciare le ferie made in Italy, che si sommano ai contributi destinati a colf e badanti, liberi professionisti, lavoratori stagionali del turismo e precari dello spettacolo. Insomma, per il governo tutto fa bonus. Nel giro di poche settimane si è allargato a dismisura l’ombrello aperto dallo Stato nel tentativo di proteggere i più deboli dai colpi da una crisi economica senza precedenti nella storia della Repubblica. E pensare che prima della pandemia uno degli obiettivi primari dell’esecutivo, quantomeno a parole, era la semplificazione legislativa. Per esempio in materia di tassazione dei redditi, che ha visto una proliferazione incontrollata di deduzioni e detrazioni, ciascuna tagliata a misura di lobby. Niente da fare. Adesso arriva l’ecobonus che serve a detassare le ristrutturazioni edilizie con l’obiettivo di rimettere in moto il settore delle costruzioni colpito dalla crisi da virus.

Tre mesi di emergenza hanno gonfiato la bolla dei sussidi, alimentando un ingorgo burocratico che ha provocato ritardi nell’erogazione degli aiuti. Esemplare il caso della cassa integrazione (Cig) in deroga, destinata alle imprese con meno di cinque dipendenti, che va ad aggiungersi alla Cig ordinaria per le aziende più grandi. Sarebbe stato utile unificare le procedure e invece la cassa in deroga fa ancora capo alle regioni che poi provvedono a inoltrare le richieste all’Inps. Per settimane la macchina degli aiuti ha funzionato a rilento, con migliaia di pratiche arenate tra la periferia e l’amministrazione centrale. Al 7 maggio l’assegno era arrivato solo a 122 mila lavoratori su un totale di circa 1,3 milioni che secondo i dati raccolti dai sindacalisti della Uil hanno fatto domanda della cassa in deroga. Anche quella ordinaria viaggia in grave ritardo, così come gli assegni ordinari del fondo di solidarietà. In questo caso, secondo le ultime stime, le pratiche ancora in attesa di essere liquidate riguardano almeno 2 milioni di possibili beneficiari. A più di due mesi dall’inizio dell’emergenza, «l’intervento poderoso» vantato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è perso nel labirinto della burocrazia, ostacolato da problemi nuovi, legati mole gigantesca dei provvedimenti, e dalla consolidata lentezza della macchina amministrativa.

Le regioni hanno fatto la loro parte. E non hanno badato a spese. Le misure decise in queste settimane dalle amministrazioni locali valgono centinaia di milioni. Della Campania governata da De Luca abbiamo già detto, ma anche il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, questa volta in veste di presidente regionale, si è mosso nella stessa direzione. Nel Lazio di Zingaretti, la lista dei sussidi comprende un contributo di 600 euro per chi ha perso il lavoro e un altro, che va dai 300 ai 600 euro, riservato a colf e badanti. Un capitolo a parte riguarda invece un “bonus ripartenza” confezionato su misura per le attività turistiche colpite dall’emergenza Covid. Sono 20 milioni in tutto destinati ad alberghi (15 milioni), agenzie di viaggio e tour operator (3 milioni) e altre attività definite “extralberghiere non imprenditoriali” (2 milioni). «Niente burocrazia: basterà un’autocertificazione senza anti documenti allegati», si legge negli annunci della regione Lazio. È lecito domandarsi, però, se questi contributi a fondo perduto non finiranno per diventare un doppione di quelli analoghi allo studio anche del governo e destinati a tutti i piccoli imprenditori, compresi quelli del turismo. Lo stesso discorso vale per il Piemonte governato da una giunta di centrodestra guidata dal forzista Alberto Cirio.

Il piano annunciato a Torino si chiama “Riparti Piemonte” e comprende un lungo elenco di microinterventi destinati alle più svariate categorie. In totale la manovra vale 88 milioni che nelle intenzioni degli amministratori piemontesi dovrebbe coprire una platea di circa 37 mila piccole e piccolissime aziende. Per bar, gelaterie, pasticcerie e ristoranti il contributo a fondo perduto può arrivare fino a 2.500 euro. La stessa somma è riservata a parrucchieri ed estetisti, sale da ballo e discoteche, mentre ai centri benessere è destinato un bonus da 2.000 euro. C’è un capitolo che riguarda anche gli ambulanti. È il “bonus mercati”: 13 milioni in tutto da dividere tra 10 mila commercianti, secondo quanto annunciato dalla giunta piemontese.

La Liguria invece ha giocato la carta del bonus assunzioni, anzi, “assunzionale”, come si legge nelle carte della regione guidata da Giovanni Toti. In pratica verranno finanziate le ditte individuali del settore allargato del turismo (alberghi, affittacamere, campeggi ristoranti e bar) che in queste settimane si impegnano ad aumentare il numero dei propri dipendenti a tempo determinato e indeterminato. Il bonus per ciascuna assunzione può variare da 3 a 6mila euro. In tempi di grande incertezza, per usare un eufemismo, non è detto che questi incentivi riescano davvero a evitare i fallimenti a catena di migliaia di imprese e a sostenere l’occupazione. Di sicuro, però, i contributi a fondo perduto come quelli previsti dai piani d’emergenza regionali potrebbero rivelarsi più efficaci dei finanziamenti con garanzia statale varati dal governo.

L’esperienza di queste settimane dimostra infatti che le pratiche per i prestiti destinati alle imprese più piccole vanno per le lunghe, ostacolate dalla burocrazia bancaria. L’istruttoria richiede tempo. Gli affidamenti vengono deliberati sulla base di griglie rigide che valutano l’affidabilità del debitore. Per questo migliaia di aziende non provano neppure a bussare agli istituti di credito. E allora, per evitare il crack, non resta che il salvagente dei contributi a fondo perduto. Ci sono quelli regionali. E adessso, con il decreto rilancio, arrivano anche quelli statali per le imprese. Un doppione, tanto per cambiare.