Il nostro Paese non sta ponendo attenzione alle decisioni da cui dipende il futuro: non quello delle prossime settimane, ma dei prossimi vent’anni. E il debito al 135 per cento del Pil è uno schiaffo alla giustizia intergenerazionale

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La sensazione che ho seguendo il dibattito di queste settimane, così concentrato su quali attività potranno ripartire e quando, sulla distanza da tenere quando si esce o si va al ristorante, sul costo e la disponibilità delle mascherine ecc., tutti temi ovviamente rilevanti per la vita quotidiana, è che, una volta di più, il nostro Paese non stia ponendo abbastanza attenzione alle decisioni da cui dipende il nostro futuro non delle prossime settimane, ma dei prossimi vent’anni. E che tali decisioni si stiano prendendo senza considerare il punto di vista delle giovani generazioni, chiamate a pagare il conto di un debito pubblico destinato ad esplodere. Perché se lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza pregiudicare il fatto che le generazioni successive facciano altrettanto, allora dobbiamo sapere che il boom del debito pubblico che stiamo generando rende il nostro sviluppo più insostenibile.

Una delle domande cruciali di questi giorni riguarda le condizioni del sistema economico. Le previsioni governative parlano di una caduta del prodotto interno lordo (Pil) pari all’8 per cento nel 2020 e una ripresa del 4,7 per cento nel 2021; secondo il Fondo Monetario Internazionale la caduta sarà del 9,1 per cento, la ripresa del 4,8 per cento, mentre la Commissione europea prevede un -9,5 per cento e un +6,5 per cento. Tutti, dunque, stimano un rimbalzo nel 2021, ma incapace di far recuperare al Pil il livello del 2019. D’altra parte, grazie all’impegno senza precedenti della finanza pubblica, l’impatto sui redditi delle famiglie sarà molto contenuto e verrà quasi completamente recuperato nel 2021. Ovviamente, tale impegno farà aumentare enormemente il debito pubblico, dal 135 per cento del Pil nel 2019 a oltre il 150 per cento nel 2021. E questo solo tenendo conto delle politiche economiche fin qui programmate. Se poi l’Italia vorrà beneficiare dei fondi messi a disposizione dall’Unione europea, nella misura in cui essi saranno realizzati in forma di linee di credito a tassi particolarmente bassi, il debito aumenterà ulteriormente.

Ma il problema non è solo italiano. Secondo la Commissione europea, il Pil dei Paesi dell’eurozona dovrebbe cadere del 7,4 per cento nel 2020 per poi crescere nel 2021 del 6,1 per cento, mentre il reddito disponibile delle famiglie dovrebbe scendere solo dell’1,2 per cento per poi aumentare dell’1 per cento. Il che vuol dire che l’andamento dei consumi (-9 per cento e + 7,1 per cento) sarà - nella media della popolazione - quasi interamente dovuto a decisioni autonome delle persone, non a un crollo del loro reddito, sostenuto dall’anticipo di risorse che sarebbero spettate alle future generazioni, in cambio delle quali lo Stato emetterà debito pubblico.
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Questo modo di guardare il problema solleva una domanda che mi sembra assente dal dibattito pubblico: ma nel decidere come usare i “loro” soldi, i decisori politici hanno considerato il fatto che sono anni che i giovani chiedono una sterzata decisa nelle politiche pubbliche a favore di un modello di sviluppo diverso, basato sul concetto di sostenibilità? E gli opinion leader che in queste settimane di lockdown hanno dedicato tanto tempo a discettare su come dovrà essere il futuro, hanno fatto sentire la loro voce nel momento in cui si decideva come usare a favore della sostenibilità decine e decine di miliardi che le giovani generazioni dovranno rimborsare? Oppure, è scattata anche in loro la sindrome del “ci penserò domani” giustificata dall’urgenza, che ha guidato tante decisioni poco lungimiranti assunte nel passato, nel nostro Paese come in altri, e che ci hanno portato a costruire un sistema socioeconomico così vulnerabile, peraltro distruggendo l’ambiente in cui viviamo?

Una delle ragioni per cui non ci si pongono queste domande è quella che i neuroscienziati chiamano “bias cognitivo”, cioè la lente distorta con cui leggiamo la realtà. Se vogliamo assumere la prospettiva della giustizia intergenerazionale, infatti, dovremmo guardare non solo ai “flussi” economici (consumo, Pil ecc.), ma anche a cosa le nostre decisioni comportano per l’andamento dei diversi “stock” di capitale (economico, umano, sociale e ambientale) da cui il benessere, in ultima analisi, dipende. Se il nostro Paese disponesse di istituzioni chiamate a valutare, in modo indipendente, i profili di giustizia intergenerazionale delle decisioni pubbliche, esse ci direbbero che non si possono usare oggi le risorse che spetterebbero alle generazioni future per sostenere attività che, inquinando, distruggono capitale naturale, o non investire massicciamente in formazione per compensare la perdita di conoscenze (cioè di capitale umano) che la disoccupazione determina, o non sostenere adeguatamente il terzo settore che, anche attraverso il volontariato, accresce il capitale sociale, pur non generando Pil.

Esse valuterebbero se ha senso sostenere quelle imprese che finora hanno alimentato l’evasione fiscale senza obbligarle a intraprendere un serio percorso di emersione dei redditi degli imprenditori e del lavoro dei dipendenti irregolari. Segnalerebbero all’opinione pubblica la mancanza di una legge nazionale contro il consumo di suolo, senza la quale un rilancio dell’edilizia che passi semplicemente per nuove edificazioni, invece che dalla riqualificazione del costruito, rischierebbe di peggiorare la qualità degli ecosistemi, e quindi il capitale naturale, e non risolvere i problemi delle tante famiglie che vivono in case fatiscenti o a rischio idrogeologico. Simulerebbero, con modelli complessi, gli effetti di politiche alternative sull’occupazione, sull’inquinamento, sulle disuguaglianze, consentendo all’opinione pubblica di capire i nessi tra i diversi fenomeni, come abbiamo imparato a fare per le variabili epidemiologiche, e di dibattere seriamente di come orientare l’uso della più ingente massa di risorse “nostre” mai messe in campo in così breve tempo.

Poiché il futuro si costruisce prendendo decisioni nel presente, è necessario che il governo e l’opinione pubblica assumano pienamente l’ottica della giustizia tra generazioni, trovando il modo di comprendere e valorizzare molto di più il punto di vista di chi dovrà pagare il conto. Inoltre, è giunto il momento di dotarsi di istituzioni che aiutino l’Italia a prepararsi al futuro e a valutare le politiche pubbliche in un’ottica intergenerazionale, come già avviene in tanti Paesi. Infine, il Parlamento dovrebbe discutere quanto prima la proposta di legge costituzionale già presentata per introdurre nella Carta il principio di giustizia intergenerazionale. Sarebbe il modo migliore di dire ai nostri giovani di avere ancora fiducia nelle generazioni adulte, perché abbiamo imparato la lezione, anche se a carissimo prezzo.

Enrico Giovannini è portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)