Rischiamo di trovarci senza membri delle nuove generazioni preparati. E per quelli che sono riusciti a entrare nel mercato del lavoro le cose non vanno meglio

Il rischio maggiore che sta correndo l’Italia è trovarsi nei prossimi anni senza la risorsa più preziosa, senza giovani ben preparati, con le competenze necessarie per alimentare i processi di sviluppo competitivo del paese. Eppure, per lungo tempo si è sentito obiettare che in realtà, per quanto pochi, i membri delle nuove generazioni italiane sono in realtà troppi (un’idea sintetizzata dalla frase: «se ce ne fossero ancora di meno, avremmo meno giovani disoccupati»).

 

Ci sono almeno quattro fattori che, in combinazione tra loro, hanno portato i giovani, entrati nel mercato del lavoro in questo secolo, a sentirsi di troppo rispetto alla capacità del sistema produttivo di includerli efficacemente e valorizzarli adeguatamente.

 

Primo: finora il centro della vita attiva del paese è stato solidamente presidiato dalle consistenti generazioni nate nei primi decenni del secondo dopoguerra, che ora stanno spostando il proprio peso progressivamente in età anziana.

 

Il secondo fattore è il percorso di basso sviluppo del Paese. La prima decade di questo secolo è stata indicata come “decennio perduto” per il rallentamento della crescita a confronto degli decenni passati e la perdita di competitività rispetto alle altre economie avanzate. Il periodo fra il 2008 e il 2013 è stato poi segnato dalla Grande Recessione che ha colpito in modo particolare l’Italia e ancor più i giovani.

 

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Nello stesso periodo, e passiamo così al terzo fattore, è andata sensibilmente aumentando l’occupazione nella fascia più anziana della forza lavoro. L’invecchiamento della popolazione porta i Governi a porsi la questione di come affrontare i costi crescenti associati alle pensioni, alla salute e all’assistenza sociale. Una delle risposte principali è favorire virtuosamente le coorti più mature a rimanere più a lungo nel mercato del lavoro. In Italia ciò è stato fatto spostando in avanti l’età di pensionamento. Basso è stato, invece, lo sviluppo degli strumenti di Age management, ovvero di politiche a supporto della lunga vita attiva nelle aziende. La combinazione tra invecchiamento demografico, posticipazione del ritiro dal lavoro, bassa crescita economica e basso sviluppo dei settori più innovativi e competitivi, ha portato a un aumento dell’occupazione degli over 55 senza un’espansione generale delle opportunità di occupazione. Ovvero, la torta non si è allargata e le porzioni sono andate sempre più a favore della fascia più matura della forza lavoro. Detto in altre parole, la politica si è accontenta di ridurre i costi dell’invecchiamento senza favorire un salto di qualità delle condizioni di lunga vita attiva nel mondo del lavoro, da un lato, e senza affrontare le conseguenze del “degiovanimento”, dall’altro.

 

Il quarto fattore che ha contribuito al surplus di giovani italiani rispetto alla capacità di inclusione attiva di nuove energie e intelligenze nei processi di sviluppo del Paese, sono state tutte le carenze nei servizi che si occupano dell’incontro efficiente tra domanda e offerta. Un persistente basso investimento in politiche attive ha determinato un deficit di strumenti adeguati - all’altezza delle economie più avanzate e alle sfide che pone questo secolo – per orientare e supportare le nuove generazioni nella formazione delle competenze richieste, nella ricerca di lavoro, nella realizzazione armonizzata dei progetti professionali e di vita. Come ho descritto nel libro “Crisi demografica. Politiche per una paese che ha smesso di crescere” (Vita e Pensiero 2021), ci troviamo oggi con uno dei peggiori intrecci nelle economie mature avanzate tra crisi demografica e questione generazionale. Gli squilibri demografici stanno sempre più riversando i propri effetti all’interno della popolazione attiva. Attualmente in Italia, la fascia dei 30-34enni risulta decurtata di circa un terzo rispetto a quella dei 50-54enni: valori inediti sia rispetto al passato sia nel confronto con il resto d’Europa. Di fronte a tali squilibri e in combinazione con l’elevato debito pubblico, dovremmo essere il Paese più impegnato a favorire la partecipazione ampia e qualificata delle nuove generazioni al mondo del lavoro. E invece i giovani italiani si sono trovati nei primi due decenni di questo secolo con persistenti limiti e ostacoli su tutta la transizione scuola-lavoro. Di conseguenza la forza lavoro italiana sta subendo un processo di degiovanimento ancora più accentuato rispetto alla popolazione generale.

 

Dal 2005 al 2020 il peso degli under 35 sulla popolazione attiva è diminuito di 5 punti percentuali, ma quello sugli occupati si è ridotto del doppio. L’efficacia di quanto verrà realizzato con i finanziamenti di Next Generation Eu va allora, prima di tutto, misurata sulla capacità di mettere il capitale umano delle nuove generazioni al centro dello sviluppo sostenibile, inclusivo e competitivo del Paese. Se non lo faremo non ci rimarrà che rassegnarci alla crescente lamentazione di imprese che non troveranno le competenze e le professionalità richieste.

 

Alessandro Rosina è docente di Demografia e Statistica Sociale all’Università Cattolica di Milano