In principio fu Carlo Calenda. «Ci trattano come la Guyana francese», sbottò a novembre del 2017 l’allora ministro dello Sviluppo Economico. Ce l’aveva con Vincent Bolloré e la sua holding Vivendi che da Parigi pretendeva di dettar legge a Telecom Italia. Da allora, in quattro anni, è successo di tutto. Scalate in Borsa e ribaltoni manageriali in serie per poi tornare alla casella di partenza, con Bolloré che resiste al comando. Forte di un pacchetto azionario di poco inferiore al 24 per cento, il finanziere transalpino è ancora il primo azionista della principale azienda di telecomunicazioni nazionale e può quindi, legittimamente, condizionare le strategie di un gruppo che possiede infrastrutture strategiche per il sistema Paese, a cominciare dai 20 milioni di chilometri di fibra ottica su cui viaggiano voce e dati. Roma non può fare a meno di trattare, ma proprio come ai tempi di Calenda, e poi dei suoi successori, da Luigi Di Maio fino al ministro in carica, Giancarlo Giorgetti, il governo sembra procedere a tentoni, tra proclami (non siamo la Guyana!) e aggiustamenti tattici.
Questa volta però è diverso. Indebolito da risultati inferiori alle attese e dallo stallo sul dossier della rete unica, l’amministratore delegato Luigi Gubitosi è finito all’angolo. La resa dei conti è prevista per venerdì prossimo, 26 novembre, in una riunione del board convocato dal presidente Salvatore Rossi su richiesta di 11 consiglieri guidati dai rappresentanti di Vivendi, Arnaud De Puyfontaine e Frank Cadoret. Gubitosi rischia grosso. Con i francesi che remano contro e almeno altri nove consiglieri indipendenti che hanno appoggiato la loro richiesta di una verifica in consiglio, il destino dell’amministratore delegato è appeso alle decisioni del governo, azionista con un 10 per cento circa attraverso la Cassa depositi e prestiti. La resa dei conti arriva dopo settimane di tensioni, alimentate dai risultati deludenti del gruppo. Le grandi aziende di telecomunicazioni faticano da tempo a far quadrare i conti e Tim (già Telecom Italia) arranca nel gruppo di coda, con margini di profitto in calo per effetto della guerra dei prezzi su un mercato sempre più affollato di concorrenti. Nell’arco di un triennio, dal 2017 al 2020, l’ex monopolista telefonico ha perso per strada il 15 per cento dei ricavi e nei primi nove mesi del 2021 il giro d’affari delle attività italiane è diminuito ancora dell’1,6 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le linee fisse gestite da Tim sono in calo da tempo (8,7 milioni a fine settembre contro gli 11 milioni del 2017), ma anche la telefonia mobile segna il passo e rende sempre di meno: i ricavi medi per abbonato si sono ridotti di oltre il 40 per cento nel giro di quattro anni. Di conseguenza anche l’utile diminuisce, nei primi nove mesi dell’anno si è quasi azzerato (solo 22 milioni), mentre a settembre del 2020 aveva superato il miliardo (1.178 milioni).
Va detto che l’intero settore è in sofferenza. Secondo un recente rapporto dell’ufficio studi di Mediobanca, nel 2020 il fatturato degli operatori di telecomunicazioni si è ridotto del 3 per cento in Europa e del 4,8 per cento in Italia. Insomma, in un contesto a dir poco difficile, Tim soffre di suo e il passo falso dell’amministratore delegato Luigi Gubitosi, costretto a metà ottobre a correggere al ribasso le previsioni di utile per il 2021 diffuse solo tre mesi prima, ha fornito nuovi argomenti ai pessimisti. In Borsa, il titolo del gruppo italiano ora viaggia ai minimi dell’anno, ma i ribassi non sono una novità. La quotazione perde terreno dalla primavera del 2018: meno 60 per cento circa rispetto al prezzo dell’aprile di tre anni fa. Lo studio pubblicato da Mediobanca segnala che tra i grandi operatori telefonici europei, l’azienda tricolore è quella con la peggiore performance borsistica dall’inizio della pandemia.
Numeri alla mano è quindi comprensibile l’insoddisfazione di Bolloré per i risultati della sua sortita Oltralpe. A novembre del 2018, sconfitto in assemblea da un’inedita coalizione di azionisti internazionali guidati dal fondo britannico Elliott, il patron di Vivendi non ha potuto fare a meno di accettare la nomina di Gubitosi, un nome proposto dalla cordata avversaria, mentre sul fronte strettamente finanziario l’investimento su Tim si sta rivelando una scommessa ad alto rischio, per usare un eufemismo. La quota del 23,75 per cento nella società italiana è valutata circa 3 miliardi di euro nel bilancio del gruppo controllato da Bolloré, ma le stesse azioni, misurate in base alla quotazione di questi giorni, valgono molto meno, poco più di 1,2 miliardi. Se Vivendi allineasse la propria partecipazione al prezzo espresso dal mercato, non potrebbe quindi fare a meno di iscrivere a bilancio una pesante minusvalenza, vicina ai 2 miliardi di euro. La relazione semestrale della holding, aggiornata a giugno, spiega però che, a giudizio del management del gruppo francese, confortato dal parere di un advisor indipendente, la perdita di valore delle azioni Tim «non è da considerarsi permanente». La valutazione – si legge – verrà aggiornata nell’ultimo trimestre dell’anno, alla luce del nuovo piano industriale del gruppo guidato da Gubitosi. Al momento, però, non sono in vista novità sostanziali, tali da dare nuovo smalto alla performance dell’azienda telefonica, almeno nel breve termine.
Non si può quindi escludere che nel prossimo bilancio Vivendi sia costretta a farsi carico almeno in parte delle perdite fin qui maturate. Per il miliardario Bolloré sarebbe la seconda battuta d’arresto sul fronte italiano nel giro di pochi mesi. L’alleanza siglata nel 2016 tra Mediaset e Canal Plus, la pay-tv controllata da Vivendi, si è arenata da subito e nel maggio scorso, al termine di una lunga vertenza legale con la Fininvest di Silvio Berlusconi, il gruppo francese ha accettato di liquidare in Borsa gran parte della partecipazione del 29 per cento nel capitale di Mediaset accumulata a partire dal 2016. La vendita avverrà nell’arco dei prossimi cinque anni a prezzi prefissati nell’intesa tra le parti. In altre parole, oltre alla grana Tim, Vivendi dovrà con ogni probabilità smaltire in bilancio anche le perdite della sfortunata avventura televisiva nella Penisola. Nessun problema per il magnate Bolloré, che giusto poche settimane fa, con il collocamento in Borsa delle azioni di Universal Music, ha incassato con la sua holding di famiglia, il Bolloré Group, una somma vicina ai 6 miliardi di euro. Il doppio smacco italiano rischia però di lasciare il segno nei conti di Vivendi, senza contare lo sfregio all’immagine dell’investitore infallibile che il finanziere con base a Parigi ama proiettare di sé. Non per niente, ormai da settimane, Gubitosi è sottoposto a un pressing crescente da parte del primo azionista di Tim che chiede una rapida correzione di rotta nelle strategie aziendali. I deludenti risultati del trimestre chiuso a settembre e le previsioni tutt’altro che incoraggianti per l’immediato futuro hanno convinto Arnaud de Puyfontaine, il presidente di Vivendi che siede anche nel board del gruppo telefonico, a stringere i tempi del confronto con il manager italiano.
Dario Scannapieco
Da più di un anno, però, la situazione è in stallo. La rete unica non sembra in cima all’agenda di Dario Scannapieco, scelto da Mario Draghi per il vertice della Cassa al posto di Fabrizio Palermo. Nell’incertezza generale fanno festa solo gli speculatori, che periodicamente, come è successo anche di recente, soffiano sul fuoco delle indiscrezioni per guadagnare in Borsa. Intanto Tim naviga a vista e lo Stato paga il conto. La quota di Cdp, pagata più di un miliardo, alle quotazioni di questi giorni ha già perso quasi metà del suo valore.