Commento
La politica ha fatto un passo indietro per lasciare impostare a un banchiere la rotta su come investire una enorme mole di fondi. Un evento mai visto nella storia recente in cui ai non politici era lasciato l’onere delle misure impopolari
di Marco Simoni
Per capire la crisi del sistema politico italiano, superata solo grazie alla saggezza del Presidente Mattarella, bisogna partire dal paradosso di cui nessuno parla. Nelle democrazie i tecnici vengono chiamati al governo quando bisogna fare delle cose impopolari, tagli o nuove tasse, di cui i partiti non vogliono prendersi la colpa. Esiste perfino un termine nella politologia anglosassone, blame-shifting, in italiano: scaricabarile. Il nostro esempio più recente è stato il governo Monti, le cui politiche emergenziali sono state oggetto di dileggio spesso dagli stessi che le avevano votate in Parlamento. Invece, quello attuale deve essere il primo caso nella storia in cui i partiti fanno non uno ma dieci passi indietro, davanti alla autorevolezza di Mario Draghi, proprio nel momento in cui non ci sono mai stati tanti soldi da spendere, alcuni persino a fondo perduto dall’Europa.
A spanne, stiamo parlando di una spesa aggiuntiva in pochi anni di circa il 12 per cento del Pil, era dagli anni ’80 che non accadeva e, dopo essersi tutti lamentati della austerità per un decennio, proprio quando arriva il momento di spendere, i partiti decidono di passare la mano. Ma come è possibile?
Questo paradosso sostanziale mostra quanto sia stato sbagliato personalizzare la crisi come invece si è teso a fare puntando l’indice chi verso Renzi o Zingaretti, chi verso Conte o Di Maio. È un errore anche più grave averla ridotta a mera mancanza di competenza, per quanto le soluzioni tecniche necessarie a una spesa tanto ingente saranno certamente in cima all’agenda del nuovo governo. Infatti, sono mesi ormai che giustamente si discute del Recovery Fund e della necessità - richiesta dall’Europa, ovvero anche da noi agli altri paesi - di associare alla spesa riforme sistemiche che però, fateci caso, raramente sono state declinate. Si è detto che la spesa va dedicata a investimenti che ci possano aiutare, grazie alla azione combinata con le riforme, a invertire la spirale di crescita stagnante che ci assilla da oltre 20 anni. Dunque anziché concentrarsi sugli attori protagonisti del “teatrino della politica” appena concluso, bisogna riflettere sul copione: le cose da fare.
I meno giovani ricorderanno l’espressione “teatrino della politica” usata con efficacia populista ante litteram da Berlusconi. Eppure, come spiega il politologo David Runciman, la drammatizzazione delle beghe quotidiane è una caratteristica sana, non patologica, della democrazia: la rende più forte rispetto alle apparentemente austere ma fragili autarchie perché la abitua a superare le sue febbriciattole, a rafforzare i propri anticorpi, a non farsi mai scuotere in profondità. Il problema di questa abitudine alla scena è che la democrazia corre sempre il rischio di accorgersi in ritardo delle vere crisi, come è accaduto con quella recente che ha lasciato infatti molti spiazzati, tra i protagonisti e tra gli osservatori. Proprio questa inversione di priorità tra attori e copione è la cartina al tornasole di una vera crisi, molto diversa dall’usuale e normalmente benemerito teatrino.
Il problema infatti è che il copione, o meglio il canovaccio, di ogni politico, come sappiamo da Machiavelli in poi, è limitato e condizionato dal contesto storico in cui si trova a calcare la sua scena. Dal dopoguerra agli anni ’80 era quello della industrializzazione e della crescita dello stato sociale; quello degli anni ’90 e 2000 era caratterizzato dal dimagrimento dello Stato e dalla globalizzazione. Ma dal 2007 ormai, anno della crisi finanziaria e dell’invenzione dello smartphone, il canovaccio usuale è apparso sempre più inservibile, mentre nuove bozze venivano scritte e riscritte in maniera episodica, incerta e contraddittoria in tutto il mondo Occidentale. Per questa ragione profonda, una politica priva di canovaccio da seguire ha sentito il bisogno, il sollievo sembra quasi, di chiedere a Mario Draghi, un banchiere centrale che ha già dimostrato di sapere rispondere con alte dosi di innovazione a situazioni difficili e nuove, di impostarne la scrittura. Dico impostarne perché la scrittura di nuove linee di lungo periodo sarà un esercizio che dovrà durare a lungo.
L’età della “Grande moderazione”, o del “Neo-liberismo” come usa oggi dire, è stata durissima per l’Italia che è passata dalla stagnazione a crisi aperte, bruciando trenta anni di mancata crescita. È stato un cambiamento traumatico rispetto trenta anni precedenti, dove l’Italia aveva invece approfittato come nessun altro paese delle occasioni del dopoguerra. Per questo i prossimi mesi saranno così importanti, nel governo e nella politica: per cogliere l’occasione di tornare a trovare la capacità dei nostri nonni (o bisnonni, per i più giovani) di adattarci al nostro tempo in maniera positiva.
Abbiamo qualche indizio sulle caratteristiche che questo canovaccio potrà avere perché ogni paradigma (per usare una espressione più precisa) si basa su un assetto istituzionale stabile. Nel dopoguerra tutto si basava sugli accordi di Bretton Woods; durante la Grande moderazione il pilastro era il Wto e una Ue tutta economica. Ora l’Europa ha assunto un protagonismo e un interventismo che non avevamo mai visto, spinta dall’opinione pubblica dei propri paesi: questo è certamente il caposaldo della nuova epoca, un popolo europeo che per la prima volta impone una linea nuova, una direzione comune.
Il secondo caposaldo è la necessità di una più equa e equilibrata distribuzione, nelle nostre società, di risorse economiche e ambientali, e di valori, che ha un problema chiave, il classico elefante nella stanza. Questa maggiore equità non può essere raggiunta, come era accaduto nel dopoguerra, attraverso un continuo aumento del ruolo dello Stato nell’economia, che già oscilla nei paesi europei tra il 45 e il 50 per cento del Pil. Si tratta dunque di un problema di razionalizzazione di spesa, di scelte certo tra interessi contrapposti, ma soprattutto un problema di crescita e di regolazione. Limitare i mercati non significa uno stato interventista e sprecone, ma può significare sapere individuare e correggere i casi in cui il mercato non regolato finisce per ridurre il benessere sociale.
E arriviamo alla crescita, il convitato di pietra di qualsiasi ragionamento sul nostro Paese. Senza crescita, e ancora di più dopo la pandemia, i divari territoriali resteranno, le disparità di genere e generazionali si aggraveranno, il contratto sociale già logoro del nostro Paese porterà nuove e più gravi tensioni. Su questo capitolo, che è il più complesso e il più necessario, va superata la stantia contrapposizione tra Stato e Mercato, per arrivare a una nuova e più efficace sintesi.
Riconoscere il ruolo centrale della iniziativa privata come libero motore di crescita non significa disconoscere le responsabilità dello Stato nella fornitura di beni pubblici, di infrastrutture di alto livello, di sostegno e protezione a individui e famiglie che favoriscano anche la liberazione delle loro energie. Mentre l’intervento pubblico va usato con gran prudenza in media, è fondamentale agli estremi: ad esempio per colmare i divari di istruzione e formazione al Sud, e per sostenere - su tutto il territorio - la ricerca scientifica che ci riporti a attrarre competenze e talenti da tutto il mondo (facendo tornare anche qualcuno dei nostri). In altre parole, è possibile perseguire la crescita della produttività, la liberazione delle energie private ancora molto compresse dalla burocrazia, ma facendolo con l’obiettivo chiave di aumentare il benessere - il welfare - e non solo la ricchezza, prendendoci così cura della nostra democrazia.