Mirco Della Vecchia fattura due milioni e mezzo con il cioccolato che produce dal 1999 a Belluno. «L’anno scorso a Pasqua siamo stati colti di sorpresa dal lockdown e abbiamo dovuto gettar via centinaia di uova e dolci che avevamo preparato con tanta cura», racconta. Le vendite crollarono del 30% rispetto alla Pasqua 2019, l’ultima “normale”. Ma quest’anno non si è fatto trovare impreparato. «Era nell’aria che ci saremmo trovati di nuovo in zona rossa e così in questi mesi abbiamo rinegoziato gli accordi con i fornitori, i distributori e i nostri 30 dipendenti nessuno dei quali ha perso il posto. Abbiamo poi certosinamente scelto le qualità di cioccolato migliori e più raffinate, aperto all’e-commerce e ai social network. E contiamo di non avere perdite. Sperando che sia l’ultima Pasqua di sofferenza».
Luciano Peduzzi, socio con i fratelli nell’azienda familiare di Albano Laziale che produce infissi (la fondò il nonno 75 anni fa), dice che nel suo settore c’è grande fermento: «Ci sono voluti sei mesi di rodaggio, che abbiamo usato per frequentare webinar di formazione, investire in automazione, concludere accordi con le banche. Ma ora il superbonus al 110% per le ristrutturazioni è partito alla grande e apre prospettive rosee. L’unico rammarico è che scadrà nel 2022». Il lavoro, per la verità, alla Peduzzi, 2 milioni di fatturato e una ventina di dipendenti, non è mancato neanche nei mesi più difficili. «Per i codici Ateco abbiamo chiuso solo 20 giorni un anno fa. Subito abbiamo ricominciato a lavorare anche all’estero, assunto 4 ragazzi, accolto apprendisti, fatto tutte le sanificazioni del caso. E guardiamo con fiducia al futuro».
Di storie come queste è piena l’Italia. La ripresa è qui, latente, nelle parole di chi non si arrende. «Diversi settori sono alle corde e non sanno come evitare il ko, è vero, però la maggior parte degli imprenditori dimostra di avere una marcia in più e affronta di petto la crisi migliorando l’offerta, lavorando sulla qualità, ingegnandosi a trovare soluzioni innovative a problemi vecchi e nuovi», dice Daniele Vaccarino, presidente della Cna (Confederazione nazionale artigianato), 600mila piccole imprese iscritte. Certo, il quadro di partenza è da brividi.
L’ufficio studi della Cna ha analizzato i bilanci di 12mila aziende manifatturiere e commerciali che fatturano meno di 5 milioni: le vendite nel 2020 sono scese del 23% nell’alimentare, del 24,4% nella meccanica, del 30,5% nell’arredo, del 31,7% nell’abbigliamento, del 50,7% nel settore lapideo. «Eppure il 2020 è alle spalle e l’industria somiglia a una pentola a pressione che aspetta solo che qualcuno le tolga il coperchio per esplodere», commenta Stefania Tomasini, responsabile per le previsioni di Prometeia. «Una crisi del genere è devastante come una guerra ma non è una guerra, non ci sono macerie da rimuovere. E non è neanche come la crisi precedente, quella finanziaria, con il lunghissimo strascico di conti da rimettere a posto: sembra che ci sia solo da riaccendere il motore sfruttando i fondi europei».
Eppure il bollettino 2020 a una guerra somiglia: 150 miliardi di Pil persi e 108 miliardi di consumi, 435mila occupati in meno, nuovi debiti schizzati dai 27,9 miliardi del 2019 a 156,3 miliardi. Ma ora le previsioni sono favorevoli: Prometeia stima un Pil in aumento nel 2021 per il 4,7%, con un lieve rallentamento l’anno prossimo. Non solo: la proiezione da qui al 2023 è un 3,8% medio, addirittura più dell’Eurozona nel suo insieme (3,6). E se si guarda al periodo 2024-2030 la crescita è appena inferiore: +3,6% annuo l’Italia, +3,8 l’Eurozona.
Anche l’Ocse è ottimista: la salita del Pil sarà del 4,1% nel 2021 contro il 3 di Berlino. Anche l’anno prossimo, stando all’outlook appena sfornato, il derby sarà vinto dell’Italia con un +4% contro il 3,7 tedesco. «Non mi stupiscono queste proiezioni, anche noi ne abbiamo di simili», osserva Ludovic Subran, capo economista della tedesca Allianz, maggior gruppo assicurativo europeo. «L’Italia può giocarsela benissimo, con la grinta, il dinamismo e la flessibilità delle vostre piccole e medie imprese. Intendiamoci, la produzione industriale è ancora inferiore ai livelli pre-crisi, però ci sono molte opportunità che potete cogliere. Il piano Biden da 1900 miliardi per l’economia americana, per esempio, vale per le aziende italiane produttrici di beni intermedi 10 miliardi se sapranno inserirsi efficacemente nelle catene globali del valore». Di sicuro bisogna puntare sull’export, aggiunge Alessandro Terzulli, capo economista della Sace, inseguendo i mercati che sono già in ripresa a partire da Cina e Usa: «La ripresa dei commerci internazionali è già una realtà, come prova la stima di Oxford Economics che fissa al 10% l’aumento dell’interscambio globale 2021 dopo le perdite dell’anno scorso. L’Italia nel 2020 ha perso il 14,5% di export, e potrà recuperare quasi tutto grazie al valore delle sue produzioni di punta come la meccanica strumentale. Dico “quasi” perché all’interno della quota ci sono i servizi legati al turismo estero e a tutto il ramo dell’ospitalità che non riconquisteranno la parità. Ma l’anno prossimo sì, salvo imprevedibili ennesimi rovesci». Il turismo vale il 13% del Pil secondo Bankitalia e penalizza la produzione industriale che, conferma la Confindustria, è in ripresa: più 1,3% in febbraio dopo i valori negativi dell’ultimo trimestre 2020.
Ma la vera domanda è: come rendere strutturale la ripresa, visto che oltre che sulla voglia di riscatto si basa su condizioni esogene irripetibili come i maxi-finanziamenti europei, la politica accomodante della Bce e, new entry, il piano Biden che vale - secondo i calcoli della Goldman Sachs - lo 0,5% di Pil per l’eurozona? Qui entra in ballo la politica. «Non ci sono alternative», risponde Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici, «se non varare quelle riforme strutturali, dalla giustizia alla burocrazia, in grado di liberare finalmente le potenzialità dell’economia italiana, cogliendo l’opportunità del Recovery Fund e degli interventi monetari per i finanziamenti necessari a questi miglioramenti. Solo così la disoccupazione, che si muove in ritardo rispetto al Pil di almeno due-tre trimestri, potrà essere riassorbita».
Se non si darà una scossa al sistema amministrativo, «resteremo in fondo alle classifiche mondiali dei posti dove investire». Non c’è molto tempo perché il peso di deficit e debito - contenuto dalla sospensione dei parametri di Maastricht fino al 2023 - ricomincerà presto a farsi sentire frenando per l’ennesima volta gli investimenti. «Il guaio è che appena si comincia a riformare qualcosa, intervengono pronunce asimmetriche a disfare la tela di Penelope», dice l’economista Giampaolo Galli. «Guardate cosa sta succedendo alle riforme del lavoro, quella della Fornero e il Jobs Act. Una serie di sentenze della Consulta, l’ultima dell’8 marzo scorso, ne sta smantellando l’ossatura rendendo più complesse e costose le ristrutturazioni del personale per motivi economici».
Un altro limite è che non riusciamo a pensare in grande, accusa Mario Baldassarri, già viceministro dell’Economia, oggi presidente del Centro studi sull’economia reale: «Le regole del Recovery devono essere ancora perfezionate: sembra che alla barriera dei sei anni per il completamento delle opere da finanziare possa esserci una deroga per le infrastrutture in grado di fare la differenza: è il ritratto del Ponte sullo Stretto. Il progetto è ancora parte integrante del Corridoio 1 europeo, che da Tallin va a Berlino e quindi a sud fino a Palermo. Senza ponte è inutile fare l’alta velocità fino a Reggio Calabria e poi da Messina a Palermo: vogliamo che i Frecciarossa si spezzettino per salire sui traghetti? L’Europa potrebbe mai cofinanziare una tale rete ferroviaria? Significa escludere il Sud, che ne ha un vitale bisogno, dalle correnti di sviluppo. Stesso discorso per la Tav Lione-Torino: se non sarà completata senza più esitazioni, l’Europa non rinuncerà al corridoio 5 che va da Lisbona a Kiev. Semplicemente quel collegamento verrà fatto sopra le Alpi escludendo l’Italia. Bisogna decidere, la pazienza dell’Ue è al limite».
Ma il coinvolgimento dell’Europa nella condivisione di un programma che non ci veda rapidamente riprecipitare allo zero virgola, va oltre. La presenza di Draghi a Palazzo Chigi è insieme uno stimolo e un’occasione per salire sul carro di testa dell’Ue avviando uno sviluppo duraturo. Una boccata d’ossigeno sarebbe l’estensione degli eurobond oltre il piano NextGen: in tal senso va l’iniziativa lanciata da Draghi e Macron, che però è arrivata proprio nella stessa giornata (25 marzo) in cui la Corte Costituzionale tedesca ha sospeso l’intero progetto. La pronuncia di Karlsruhe sarebbe una formalità, vista la decisione con cui il governo di Berlino vuole il piano, se non incappasse nel momento di massima debolezza politica di Angela Merkel, provata da una serie di sconfitte elettorali locali e alle prese con un tormentato autunno della matriarca. In Germania si vota in settembre, a maggio 2022 in Francia: un rimescolamento di vertice in Europa in cui è fondamentale per il nostro sviluppo che l’Italia ci sia, forte e all’altezza degli altri.