Quando quasi due anni fa Aura Salla, la giovane politica finlandese consigliera della Commissione europea su materie come la sicurezza informatica, le minacce ibride e l'interferenza nelle elezioni, annunciò su Twitter le sue dimissioni per diventare la responsabile esterna delle relazioni di Facebook in Europa, divenne chiaro come il colosso tecnologico americano fosse determinato a provarle tutte per stroncare qualsiasi tentativo di limitare la sua influenza nella vita politica ed economica del Vecchio Continente.
A tenere svegli la notte i dirigenti del colosso americano cominciava a essere la stesura delle proposte di legge - il Digital market act e il Digital service act - che, approvate questa settimana dal parlamento, nei prossimi cinque mesi, raggiunto l'accordo con i 27 capi Stato, diventeranno le fondamenta della legislazione digitale europea. La prima al mondo. «È ben lontana da quella che avrebbe potuto essere a causa dell'impatto enorme delle lobby su liberali e popolari ma è un primo passo», dice Alexandra Geese, l'eurodeputata tedesca verde che ha fatto parte del team negoziale del parlamento.
Il Digital market act si concentra sulla limitazione dell'arbitrarietà di manovra delle grandi piattaforme, cosiddette "gatekeeper", che distorcono a loro vantaggio la competizione online mentre il Digital service act le costringerà alla rimozione di contenuti illegali e proteggerà i diritti fondamentali degli utenti. La Commissione europea avrà i poteri di controllo, di autorizzazione delle esenzioni e di imporre eventuali sanzioni.
Aura Salla
Limitare lo strapotere di Big Tech non è impresa facile. Google e Facebook in particolare sono onnipresenti nelle nostre vite e da questa onnipresenza traggono enormi guadagni. Nel 2021 Facebook ha raggiunto Apple, Microsoft, Amazon e Google nell'empireo delle aziende con una capitalizzazione da mille miliardi, dopo avere messo a segno un utile netto di 29 miliardi di dollari nel 2020. Ridurne la pervasività significa ridurne gli utili.
Ed è per questo che negli ultimi anni sono sbarcate nella capitale d’Europa orde di lobbisti e penetrati fiumi di euro distribuiti in tutte le direzioni: dalle associazioni di categoria, alle società di consulenza, alle università, ai centri di ricerca. Almeno 14 dei principali think tank di Bruxelles, hanno scoperto i ricercatori di Corporate Europe Observatory, prendono soldi da Big Tech, inclusa Facebook, e redigono rapporti che sembrano obiettivi ma che accomodano le posizioni dell'industria, da Ceps a Bruegel, a Friends of Europe per arrivare a Cdt, il Center for Democracy and Technology. Facebook non rifiuta cinquantamila euro l'anno a nessuno. E quando può finanzia anche eventi organizzati da think tank vicini ai gruppi politici di riferimento, come lo scorso autunno gli eventi sul digitale del Wilfried Martens Center on European Study, il think tank ufficiale dei popolari europei.
Poi ci sono le azioni ad hoc, quando si avvicina un pericolo improvviso. Come pochi mesi fa. Quando l'europarlamentare danese Christel Schaldemose propose come compromesso tra le forze politiche dell'europarlamento sul Digital service act che gli utenti potessero scegliere se essere tracciati o meno dalle piattaforme, Facebook si è scatenata in un'offensiva senza precedenti con l'obiettivo di fare percepire la sua pubblicità personalizzata come essenziale allo sviluppo, se non alla sopravvivenza, della piccola e media impresa. Nel giro di meno di sei mesi ha speso 6,8 milioni di euro nella sola Germania. Poi è intervenuta in Olanda e Belgio, dove ha sponsorizzato per mesi MorningTech, la newsletter del sito di informazione europea "Politico", il giornale online Euractiv. In quei mesi alcuni think tank hanno preso a pubblicare rapporti in cui elencavano i rischi della legislazione proposta e decine di annunci pubblicitari sono apparsi nella rivista del parlamento europeo e sui muri dell'aeroporto di Zaventem a Bruxelles, dove passano quotidianamente legislatori, burocrati e consulenti.
Così se dieci anni fa Big Pharma e Big Oil dominavano la conversazione con la Commissione europea e solcavano la maggior parte dei tappeti di Bruxelles, secondo centro del lobbying mondiale dopo Washington, oggi è Big Tech a farla da padrone. Tutte insieme, le 612 società tecnologiche e le loro associazioni di categoria investono oltre 97 milioni l'anno e 452 lobbisti per portare i legislatori dalla loro parte. Di queste, dieci sono responsabili di un terzo della spesa, circa 32,75 milioni. Al vertice troviamo Google con quasi sei milioni di euro l'anno e poi Facebook con cinque milioni e mezzo (oltre cinque volte quello che spendeva nel 2016) e ben 14 lobbisti a tempo pieno a Bruxelles, il numero più alto dopo la cinese Huawei.
Il ruolo dei lobbisti è cruciale nel difendere gli interessi della società. E Facebook è particolarmente nota per assumere come sue persone chiave ex ministri o, a livelli più bassi, membri delle istituzioni europee o delle amministrazioni nazionali. Se negli Usa le cosiddette porte girevoli (tra politica e business) sono la norma, in Europa lo stanno diventando, vista la riluttanza della Commissione nell'impedire i conflitti di interesse.
Già nel 2018 l'ex vice primo ministro liberale britannico Nick Clegg era diventato il capo della comunicazione globale di Facebook, forte di una rete di contatti particolarmente robusta, che intrecciava esponenti della politica liberale e liberista di mezzo mondo con le grandi multinazionali. Due anni più tardi Salla, di fede liberale anche lei, protegé, nella scorsa legislatura europea, di Jyrki Katainen, ex primo ministro finlandese e commissario per il Lavoro, la Crescita e la Competitività, è diventata il volto europeo di Mark Zuckerberg, forte dei contatti ai vertici delle istituzioni europee (con l'ex presidente Juncker è stata anche capo di Idea, il think tank interno alla Commissione). Infine, l'anno scorso Julia Reuss, la capogabinetto del ministro tedesco per gli affari digitali Dorothee Bar della Csu, ha lasciato la politica tedesca per diventare la direttrice della politica di Facebook nell'Europa centrale. «Il 90 percento dei lobbisti di Facebook proviene dalla politica», sottolinea Silva Margarida di Corporate Europe Observatory: «E non solo ai livelli alti. Per influenzare un parlamentare Facebook non esita a inviare qualcuno di pari grado anche ai suoi assistenti».
Con l'aumento del potere economico del duopolio del Big Tech è aumentato anche il ruolo che giocano nella nostra vita quotidiana tanto da essere diventate l'equivalente del "nostro sistema operativo", come scrive in un rapporto l’olandese Somo, una Ong che fa ricerca sulle multinazionali. Facebook, in particolare, ha sviluppato a tal punto la tecnica della "pubblicità mirata", inizialmente creata da Google, da essere in grado di influenzare, tramite i dati raccolti, la politica di intere nazioni.
L'allarme è stato inizialmente lanciato dal "Guardian" nel 2018 (non a caso l'anno in cui Clegg è diventato portavoce mondiale dell'attuale Meta, il nome con cui Facebook sta cercando di costruirsi una seconda vita oltre la piattaforma online), con le sue rivelazioni su come la società californiana avesse permesso a Cambridge Analitica di raccogliere dati su almeno 87 milioni di utilizzatori senza che questi lo sapessero: i dati furono poi utilizzati per inviare messaggi personalizzati durante il referendum sulla Brexit e le elezioni americane che videro trionfare Trump.
Da allora poco è cambiato, come ha dimostrato il biennio della pandemia. «Ormai è chiaro che limitare la propagazione dei contenuti dannosi ha un costo economico che i Big Tech non sono disposti a sobbarcarsi se non obbligati», dice Luca Nicotra di Avaaz, la maggiore rete di attivisti online. Un costo soprattutto in termini di perdita di ricavi pubblicitari: con 147 e 84 miliardi di dollari rispettivamente Google e Facebook detengono il duopolio della pubblicità online. «Facebook non ha un interesse politico a diffondere disinformazione», continua Nicotra, «ma il materiale estremo e le notizie violente attirano le persone, un po' come gli incidenti stradali, che ti giri a guardarli anche se non vuoi. E siccome il criterio con cui Facebook raccoglie la pubblicità è il tempo passato su una data piattaforma, il suo algoritmo finisce per premiare i siti più estremisti e polarizzanti, nuocendo alla società». Oltre a quelle imprese - ironia del capitalismo digitale - che si ritrovano a sponsorizzare indirettamente, a causa della scelta degli algoritmi, gruppi estremisti o antidemocratici. Un modello di business definito da Human Rights Watch «fondamentalmente incompatibile con i diritti umani». E che però Bruxelles ha deciso di non stroncare con la nuova legislazione digitale, eliminando la pubblicità personalizzata solo nel caso dei minorenni. In cambio, un gruppo di ricercatori (nella proposta del parlamento, anche alcune ong) potrà avere l'accesso ai dati di Facebook, previa autorizzazione della Commissione, e verificare che il loro uso non sia nocivo per la società. «È un primo passo», dice Geese: «Le grandi piattaforme radicalizzano il confronto politico perché i loro algoritmi, che puntano su rabbia e paura, diffondono disinformazione più velocemente dei fatti. La nuova legislazione ci dà gli strumenti per analizzare questi meccanismi e per trovare una soluzione». Nella speranza che i social non diventino la tomba della democrazia.