La finanza italiana viaggia contromano. In tutto il mondo, grandi banche e assicurazioni sono public company governate da manager che devono rendere conto del loro operato a una platea di azionisti dominata dai cosiddetti investitori istituzionali (hedge fund, fondi pensione, asset manager). In Italia invece, due miliardari come Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio sono all’ultimo miglio di una scalata che mira al controllo delle Generali, l’unica vera multinazionale finanziaria del Paese.
A difendere lo status quo c’è Mediobanca, che sul Leone di Trieste fonda buona parte del suo bilancio e di quel che resta del suo potere, da quando, e sono ormai un paio di decenni, è tramontata per sempre l’epoca di Enrico Cuccia e dei salotti buoni. In vista dell’assemblea dei soci in calendario per fine aprile, i due attaccanti possono contare su un pacchetto azionario del 14,7 per cento, che diventa il 16,4 per cento se si tiene conto dei titoli in portafoglio all’alleata Fondazione Crt. Mediobanca invece è al 17,2 per cento circa, compreso un 4,2 per cento preso in prestito in vista della conta finale di aprile. In quell’occasione, salvo sorprese, a dar man forte alla banca d’affari ci sarà anche il gruppo De Agostini, che manterrà i diritti di voto sulla sua quota dell’1,4 per cento, che pure ha già messo in vendita.
Leonardo Del Vecchio
Il nuovo che avanza non è esattamente una novità. Gli scalatori calcano le scene della finanza nazionale ormai da decenni. Caltagirone, 79 anni il prossimo due marzo, e Del Vecchio, 86 anni, non hanno nulla in comune tra loro salvo l’età avanzata. Il primo, romano, nasce costruttore e ora controlla un gruppo che spazia dall’immobiliare al cemento all’editoria.
Del Vecchio, milanese, ha unito la sua Luxottica alla francese Essilor per creare il più grande produttore mondiale di lenti e occhiali, un colosso che in Borsa vale oltre 75 miliardi, molto più del doppio rispetto a Generali. A tenere insieme due personalità tanto diverse tra loro c’è l’ambizione di entrambi a salire sul trono della finanza italiana per correggere la rotta di un gruppo che secondo i due scalatori continua a perdere terreno nei confronti dei maggiori concorrenti europei. In sintesi - sostengono i critici - la strategia dell’amministratore delegato Philip Donnet si sarebbe concentrata troppo sul mercato domestico, come dimostra la recente acquisizione di Cattolica assicurazioni. Un mercato dove ormai gli spazi per crescere sono ristretti, anche per questioni antitrust, ma che presenta il vantaggio di poter essere presidiato senza grande impegno finanziario da parte dell’azionista Mediobanca.
Numeri alla mano, i colossi europei delle polizze restano lontani: Allianz vale in Borsa il triplo di Generali, mentre Axa e Zurich la superano del doppio. Va anche detto però che la performance del titolo Generali è più che soddisfacente: se si prende in considerazione l’andamento degli ultimi tre anni, la compagnia italiana supera la tedesca Allianz, resta in scia ai francesi di Axa ed è battuta nettamente solo dall’elvetica Zurich guidata da Mario Greco, che sei anni fa lasciò il posto di comando a Trieste per divergenze strategiche con Mediobanca. All’epoca la rottura venne spiegata col fatto che l’allora amministratore delegato avrebbe voluto pilotare Generali verso una fusione con un altro grande gruppo internazionale. Forse anche in virtù di questi trascorsi, nei giorni scorsi il nome di Greco è tornato in ballo, secondo le indiscrezioni rilanciate in Rete, come possibile nuovo numero uno del Leone se la scalata avrà successo. Un’ipotesi che è fin qui rimasta senza riscontri concreti.
Alberto Nagel
Di certo, ad aprile, per prendere il potere in assemblea, Caltagirone e Del Vecchio dovranno presentare un piano strategico, e una nuova squadra di vertice, in grado di convincere i soci che la rincorsa ai primi della classe non è soltanto uno slogan da campagna elettorale. Finora invece il confronto tra i due schieramenti si è giocato in Borsa con i contendenti impegnati a comprare titoli e a prenderli in prestito per rafforzare le rispettive posizioni, oppure sul fronte legale, con ricorsi alle autorità di controllo, Consob e Ivass (l’authority delle assicurazioni), per ostacolare le iniziative degli avversari. Il 14 gennaio Caltagirone si è dimesso dal board di Generali, di cui era vicepresidente dal 2010, perché gli sarebbe stato impedito di «dare il proprio contributo critico». Tre giorni dopo ha annunciato la stessa decisione anche Romolo Bardin, stretto collaboratore di Del Vecchio. Di fatto, questa è l’accusa del costruttore romano, tutte le decisioni rilevanti per la gestione della compagnia sarebbero prese fuori dal consiglio, e cioè nelle stanze di Mediobanca. Ecco perché già nel novembre scorso lo stesso Caltagirone aveva presentato un quesito formale alla Consob perché si esprimesse sulla legittimità di una eventuale lista di amministratori per il rinnovo del board presentata dallo stesso consiglio uscente. Una pratica molto diffusa in Europa tra le grandi società, ma che secondo gli avversari di Mediobanca sarebbe niente altro che una scorciatoia per perpetuare il dominio della banca d’affari sulla compagnia di Trieste. Il 21 gennaio è arrivata la risposta della Consob, che ha confermato la legittimità della cosiddetta «lista del cda», una novità introdotta nello statuto delle Generali due anni fa con il voto favorevole anche di Caltagirone. Il quale, mentre alzava il volume della polemica con il fronte avversario, non ha mai smesso di rastrellare azioni sul mercato.
A partire dall’aprile scorso, all’epoca dell’ultima assemblea dei soci, il costruttore ha speso almeno 600 milioni per incrementare il suo pacchetto dal 5,63 per cento all’attuale all’8,04 per cento. Ai prezzi di Borsa del la prima settimana di febbraio i titoli intestati a una dozzina di sigle societarie riconducibili al gruppo romano valgono circa 2,3 miliardi di euro. Succedono cose curiose: la voce “azioni Generali”, valutata 126 milioni, è diventata l’attività più importante nei conti semestrali (giugno 2021) della Caltagirone editore, società quotata in Borsa che pubblica, tra l’altro, quotidiani come “il Messaggero” e “il Mattino”. Anche Del Vecchio dalla primavera scorsa ha messo sul piatto almeno mezzo miliardo di euro per portare la sua quota nel capitale del Leone dal 4,8 al 6,6 per cento circa. Entrambi gli scalatori hanno finanziato gli acquisti reinvestendo i generosi dividendi distribuiti dalla compagnia triestina nel corso del 2021. Il solo Caltagirone, per dire, ha incassato cedole per oltre 130 milioni.
Con ogni probabilità le grandi manovre in Borsa sono destinate a proseguire anche nei prossimi due mesi, fino all’assemblea di fine aprile. L’unico vincolo formale al rastrellamento è quello fissato dalla legge (il testo unico della Finanza) alla cosiddetta “azione di concerto”. In sintesi, se si dimostrasse che Caltagirone e Del Vecchio si muovono sulla base di un accordo, anche non formalizzato, e se le loro partecipazioni sommate raggiungessero il 25 per cento, allora sarebbero obbligati a lanciare un’Opa in Borsa sull’intero capitale. Non per niente, il 2 febbraio scorso, il consiglio di Generali ha chiesto a Consob e Ivass di verificare se la coppia di scalatori, insieme a Fondazione Crt, si fossero già mossi di comune accordo eludendo le comunicazioni obbligatorie al mercato. E giusto tre giorni prima, Caltagirone, per tenersi le mani libere, aveva abbandonato il patto di consultazione siglato con i due alleati nell’autunno scorso.
La Torre Generali a Milano
Di questo passo c’è il rischio che la partita su Generali si decida in tribunale, tra ricorsi e controricorsi che finirebbero per paralizzare uno snodo finanziario di importanza strategica per il sistema Paese, un gruppo che gestisce attività per 670 miliardi di euro ed è uno dei principali sottoscrittori del debito pubblico nazionale. Alla fine, salvo sorprese clamorose, in assemblea si confronteranno tre liste. Quella presentata dal consiglio uscente, sostenuta da Mediobanca, un’altra targata Caltagirone, su cui confluiranno anche i voti di Del Vecchio e Fondazione Crt e poi quella di Assogestioni. A quest’ultima, presentata dagli investitori istituzionali italiani, dovrebbe andare (ma non è detto) un posto in consiglio. Per stabilire chi avrà la maggioranza nel board composto da almeno 13 amministratori (al massimo 17) avranno grande peso anche le scelte della famiglia Benetton, forte di un pacchetto del 3,97 per cento, che si è fin qui tenuta fuori dalla mischia. Di recente però è cambiato il vertice della holding Edizione, ora presieduta da Alessandro Benetton, in ottimi rapporti con Del Vecchio. Il nuovo amministratore delegato è invece il romano Enrico Laghi, professionista di lungo corso da un paio di decenni in ottimi rapporti con Caltagirone. Come dire che le azioni targate Benetton difficilmente andranno a rafforzare il fronte Mediobanca. E potrebbero alla fine rivelarsi decisive nella sfida per il Leone di Trieste.