In questi anni i lavoratori hanno ceduto diritti in cambio di nulla. E ora il taglio del cuneo fiscale va finanziato colpendo gli enormi guadagni speculativi realizzati in questi mesi da alcune imprese. La ricetta dell’economista

Aumentare i salari con il taglio del cuneo fiscale? «Sì, certo, quella è la via facile per mettere più soldi in busta paga. C’è il rischio, però, che la manovra finisca per gravare soprattutto sulla fiscalità generale. E siccome in Italia a pagare le tasse sono solo i lavoratori dipendenti, temo che tutto si risolva in una specie di partita di giro, con ben pochi vantaggi concreti per chi nei prossimi mesi vedrà il proprio reddito reale calare ancora per effetto dell’inflazione».

 

Giovanni Dosi, ordinario di politica economica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, uno degli accademici italiani più accreditati a livello internazionale, vede un futuro prossimo in cui «ancora una volta saranno i salari a pagare il conto del rallentamento della crescita, forse addirittura di una possibile recessione che andrà a sommarsi a un aumento dell’inflazione già in corso».

E quindi dove trovare i soldi per gli interventi a sostegno del reddito dei più bisognosi?
«Partiamo da un dato di fatto: in Italia la tassazione sulle rendite finanziarie e sui profitti è scandalosamente bassa rispetto a quella sul lavoro. Quindi è in quella direzione che bisogna muoversi».

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Può fare un esempio concreto?
«In questi mesi di boom dei prezzi dell’energia c’è chi sta guadagnando tantissimo. E allora cerchiamo di colpire questi profitti frutto di speculazione. Vorrei ricordare che gran parte del gas che arriva in Italia, a cominciare da quello russo, viene pagato sulla base di vecchi contratti di fornitura a prezzi di molto inferiori a quelli correnti sul mercato spot. Questi ultimi però sono i prezzi di riferimento applicati al consumatore finale. Quindi c’è un margine enorme di guadagno per importatori e distributori. E bene ha fatto il governo ad aumentare il prelievo fiscale con il decreto di lunedì scorso». 

Le statistiche ci dicono che questa nuova fase di difficoltà per i lavoratori si somma a salari che da almeno tre decenni sono stagnanti, a differenza di quanto è successo nel resto d’Europa. Come spiega questa situazione?
«Ci sono ragioni storiche: il potere contrattuale dei sindacati è enormemente diminuito. Pensiamo, per fare un esempio, alla concertazione degli anni Novanta che ha scaricato sui lavoratori l’onere del contenimento dei prezzi».

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In Italia ormai da molti anni cresce poco anche la produttività. C’è un legame con l’andamento dei salari?
«Certo, la produttività non cresce perché si investe poco in tecnologia. Il tessuto produttivo è dominato di imprese piccole e poco dinamiche che cercano di competere tagliando il costo del lavoro. E le leggi di questi ultimi anni che hanno alimentato il precariato, comprimendo i diritti dei lavoratori, hanno favorito proprio questo tipo di aziende. Con norme come quelle del Jobs act gli imprenditori hanno potuto godere di tutti i vantaggi di una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro, senza dare nulla in cambio. Per questo ora mi sembra ridicola, quasi offensiva, la posizione di Confindustria che ha definito un ricatto la proposta del ministro Orlando che condiziona la concessione di nuovi aiuti alle aziende al rinnovo dei contratti nazionali di categoria, molti dei quali scaduti da molti anni».

Tra le proposte del ministro c’è anche quella del salario minimo legale. A suo parere può essere una misura risolutiva?
«Risolutiva no, ma certo aiuta. A una condizione».

Quale?
«Bisogna dare efficacia erga omnes ai contratti siglati dai sindacati più rappresentativi per ciascuna categoria, per mettere fuori gioco la proliferazione di sigle sindacali che finiscono per indebolire la posizione dei lavoratori. A mio parere andrebbe però anche tutelata la dignità del lavoro rivedendo le norme che ora alimentano il precariato. Queste norme, tra l’altro sono una delle cause dell’aumento degli infortuni sul lavoro».

In che modo?
«Se il lavoratore è sotto il ricatto costante di non veder rinnovato il proprio contratto non può certo pretendere che vengano rispettate tutte le norme di sicurezza. Si alimenta così una spirale perversa in cui si cedono diritti in cambio di un impiego».