Il personaggio
Sospetti, multe e soldi offshore: la scalata di Giancarlo Devasini, il Re Mida italiano dei Bitcoin
Ex chirurgo plastico, ha fatto fortuna con la criptovaluta Tether e la piattaforma di scambio Bitfinex. Gestite attraverso una rete di società ai Caraibi. E ora i ribassi delle Borse mettono alla prova la tenuta del sistema
Da una parte la ricca Lugano, con le sue banche e i negozi di lusso che si affacciano sul lungolago. Dall’altra, uno dei Paesi più poveri del mondo, El Salvador, dove il reddito annuo per abitante non raggiunge i 4 mila dollari. A unire i due estremi c’è un obiettivo in comune: la rivoluzione dei bitcoin. Nayib Bukele, il presidente populista del piccolo Stato centroamericano, spera che la moneta digitale diventi un mezzo per affrancarsi dalla grande finanza internazionale e per questo El Salvador ha legalizzato il bitcoin come mezzo di pagamento. Il sindaco Michele Foletti ha invece da poco annunciato un piano per fare della cittadina ticinese la capitale europea delle criptovalute.
Le ambizioni della strana coppia Bukele-Foletti, i sogni di libertà salvadoregni così come la nuova età dell’oro luganese, viaggiano al traino degli affari di un manager italiano, Giancarlo Devasini. Nel 2014, Devasini ha lanciato Tether, uno strumento di pagamento digitale (stablecoin) che tra alti e bassi è diventato uno dei marchi più conosciuti dell’universo complicato e in tumultuosa crescita delle monete digitali. Tra i tanti progetti, messi nero su bianco in una serie di accordi siglati nei mesi scorsi, El Salvador conta di collocare sul mercato anche titoli di stato agganciati al bitcoin. Un’operazione dalle molte incognite e già più volte rinviata. Nel Canton Ticino, invece, sperano di affiancare presto la criptovaluta al franco svizzero in tutte le transazioni economiche.
A quanto pare, Bukele, Foletti e milioni di altri investitori in giro per il mondo non sembrano preoccupati delle recenti traversie della creatura di Devasini. Nell’ottobre del 2021, la Cftc, una delle Authority di controllo dei mercati Usa, ha comminato una multa di 41 milioni di dollari alle società che gestiscono Tether. Otto mesi prima, le stesse società avevano sborsato 18,5 milioni di dollari per chiudere senza guai peggiori un’indagine della procura di New York.
Questi incidenti di percorso non hanno però rallentato la corsa della stablecoin. Nell’arco di un paio di anni la capitalizzazione di mercato della criptovaluta è cresciuta di 20 volte e ora viaggia intorno agli 80 miliardi di dollari. Restano dubbi e sospetti, alimentati da una struttura societaria che si regge su una costellazione di sigle offshore con base nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche e ad Hong Kong. Queste particolari criticità si sommano a quelle caratteristiche del mondo cripto, un mondo in cui la tracciabilità delle transazioni, per risalire al titolare effettivo dei conti diventa spesso molto complicata, favorendo così l’evasione fiscale e il riciclaggio.
Va poi considerato che Tether è collegato a Bitfinex, che è una piattaforma di scambio di monete digitali tra le più grandi al mondo. Il legame tra le due entità, una che produce moneta digitale e l’altra che ne gestisce la compravendita, è stata criticata da molti commentatori per via dei possibili conflitti d’interesse. Tether e Bitfinex condividono anche i medesimi gruppi dirigenti, ma finora non si è mai capito di preciso chi siano gli azionisti delle holding che tirano le fila di questa complicata struttura. Le società si trovano immerse in un universo virtuale, decentralizzato. Non esiste un quartier generale. Non c’è un indirizzo fisico a cui bussare per chiedere informazioni. Le domande inviate da L’Espresso a un portavoce sono rimaste senza risposta. Non è il massimo come trasparenza, a maggior ragione per un gruppo che intermedia miliardi di dollari al giorno sotto forma di compravendite di criptovalute.
Il volto pubblico di Tether è quello di un ingegnere genovese di 38 anni, Paolo Ardoino, protagonista di innumerevoli video e interviste disseminate tra i social network. Il suo collega Devasini, 58 anni, è invece un manager dalla carriera movimentata: esordi come chirurgo plastico, poi commerciante di hardware e software per computer, infine pioniere delle criptovalute. In passato, è stato descritto come residente a Londra e a Montecarlo. Alcuni documenti gli attribuiscono un domicilio a Milano, altri lo associano a un indirizzo di Lugano. Il finanziere di origini piemontesi, che ha casa anche a Cortina d’Ampezzo, non viaggia solo sui mercati virtuali.
L’Espresso ha scoperto che nell’ottobre del 2020 il fondatore di Tether ha comprato il 10 per cento di Parkingo group, la holding a cui fa capo la più estesa rete di parcheggi aeroportuali d’Europa, da Malpensa e Fiumicino fino a Francoforte, Parigi e Barcellona. Devasini sarà quindi coinvolto nel rilancio del gruppo con sede a Milano. Nel 2020, infatti, la pandemia ha quasi azzerato il traffico aereo e con questo anche tutti i business legati agli scali. I ricavi di Parkingo si sono più che dimezzati e il bilancio dell’azienda, fondata e controllata dall’imprenditore lombardo Giuliano Rovelli, è andato in rosso.
Di questi tempi, però, le preoccupazioni maggiori per il patron di Tether non arrivano certo dalla sua recente acquisizione italiana. I ribassi che nei mesi scorsi hanno in parte sgonfiato la bolla speculativa dei titoli tecnologici si sono infine estesi anche alle criptovalute. Dai massimi di novembre del 2021 la quotazione del bitcoin si è ridotta della metà e l’onda d’urto ha fatto tremare anche il castello delle stablecoin, che sono attività digitali con un valore fisso legato a una valuta reale oppure elaborato sulla base di algoritmi. In pratica, funzionano come mezzi di pagamento per facilitare le transazioni sulle piattaforme digitali.
Semplificando al massimo, le stablecoin sono in qualche modo paragonabili alle fiches per accedere a un tavolo di gioco. Il banco deve sempre essere in grado di rimborsare questi gettoni con moneta corrente sulla base di un cambio prestabilito. In caso contrario il sistema va il tilt. Lo stesso succede anche se gli investitori incominciano a temere che i gestori della stablecoin non siano in grado di onorare gli impegni. In questo caso si scatena quella che nel sistema bancario tradizionale viene definita una corsa agli sportelli. Tutti chiedono indietro i loro soldi contemporaneamente e fatalmente si arriva al crack. Questo, in sintesi, è il copione che è andato in scena a metà maggio, quando il crollo della criptovaluta Luna ha spazzato via anche la stablecoin collegata Terra, bruciando l’equivalente di 40 miliardi di dollari. Il terremoto si è subito esteso anche a Tether, il cui valore è ancorato a quello della moneta Usa, al tasso di cambio di uno a uno. Terra invece si reggeva su algoritmi che non hanno retto alla prova dei ribassi.
Per far fronte all’ondata di vendite, negli ultimi trenta giorni i manager guidati da Devasini hanno rimborsato Tether per oltre 10 miliardi di dollari. «In 48 ore abbiamo pagato sull’unghia 7 miliardi di dollari», ha raccontato Ardoino in un’intervista al settimanale Milano Finanza. Parole che servono a rassicurare gli investitori dopo una bufera che ha messo a dura prova la tenuta del sistema. «Abbiamo tutta la liquidità necessaria», ha insistito il manager. A conferma di questa affermazione, sul sito internet di Tether si legge che le riserve ammontano a 72 miliardi dollari, in gran parte sotto forma di denaro contante. Il dato è certificato da un attestatore con base alla Cayman. Dove si trovano questi soldi? La domanda non ha mai ricevuto una risposta dettagliata. Secondo indiscrezioni, il denaro sarebbe custodito in banche dei Caraibi come la Deltec Bank & Trust con sede alla Bahamas. Da Tether non sono mai arrivate conferme sui nomi degli istituti coinvolti. Il mistero continua. Almeno fino alla prossima, auspicabile stretta delle autorità di controllo.