Per il governatore del Veneto Luca Zaia l’autonomia differenziata è un’arma di difesa. Ogni giorno deve accettare le dimissioni di insegnanti pronti a migrare nella vicina Regione a statuto speciale Friuli Venezia Giulia, che paga i docenti quanto vuole. E assiste allo stillicidio di medici, pronti a trasferirsi nel confinante Trentino-Alto Adige, altro territorio autonomo che può decidere quanto retribuire il personale. Nel 2017 il Comune di Sappada ha salutato tutti e ha chiesto l’annessione al Friuli e c’è la fila di comuni di frontiera che gradirebbero fare altrettanto. Zaia, in qualche modo, si deve pur difendere. Come? Chiedendo a Roma più libertà. «E io Zaia lo capisco», dice da Bari l’economista Gianfranco Viesti, esperto meridionalista, già autore di “Verso la secessione dei ricchi?” e presto nuovamente in libreria, sempre con Laterza, con il libro “Contro la secessione dei ricchi”, per rallentare il passo verso quell’autonomia differenziata a cui punta il ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli. Il leghista e promotore del disegno di legge intende portare a casa entro l’anno la riforma per liberare Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, ma anche Piemonte, Liguria, Puglia e Campania – tante le Regioni che hanno avanzato una richiesta di autonomia – dai lacci dei palazzi romani.
I primi a puntare i piedi in tal senso sono stati nel 2017 i veneti con un referendum dall’esito plebiscitario, per chiedere a Roma di lasciare sul territorio soldi e competenze in tutti i campi: scuola, sanità, infrastrutture, energia, cultura, ambiente, gestione della cassa integrazione, previdenza integrativa e molto altro ancora. «Il Veneto leghista ha compiuto un’iniziativa politica rivendicando pieni poteri, seguito dalla Lombardia, anch’essa leghista. Più ambigua la posizione dell’Emilia: a parole il governatore Stefano Bonaccini non parla di finanza, ma nei fatti condivide le richieste di Zaia e Fontana. Ma cosa succederebbe se l’intero universo delle politiche pubbliche venisse frammentato?», si chiede Viesti. Circa un centinaio di dossier passerebbe dalla competenza nazionale a quella regionale, con parallela migrazione di funzionari dalla capitale ai capoluoghi locali: «L’articolo 5 del ddl Calderoli sull’autonomia differenziata parla della necessità di trasferire alle Regioni non solo le risorse, ma anche le funzioni amministrative», racconta Paolo Balduzzi, professore di Scienza delle Finanze all’Università Cattolica, che nel 2018 è stato consulente tecnico per la Presidenza del Consiglio al tavolo di trattativa con le Regioni per la stesura delle intese di autonomia differenziata con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Balduzzi ricorda: «Le Regioni erano più interessate a ereditare le competenze amministrative, anziché quelle legislative. Chiedevano per sé la possibilità di occuparsi dell’esecuzione pratica delle leggi. Con relativo spostamento di funzionari pubblici da Roma. È chiaro che una simile richiesta è concretizzabile solo se ci si concentra su poteri specifici. Per esempio, era del tutto comprensibile la richiesta dell’Emilia Romagna di trattenere sul territorio la competenza di programmazione dei curriculum formativi delle scuole superiori, che viene dall’esigenza del distretto automotive di avere giovani con specifiche competenze». Balduzzi, invece, esclude la fattibilità di un massiccio progetto federalista, perché significherebbe spostare la competenza di centinaia di dossier nelle mani di singole Regioni. «Il progetto è sostenibile laddove i governatori richiedono quattro o cinque competenze specifiche, mentre esigere il 90 per cento delle risorse, come ha fatto il Veneto, segna una falsa partenza per l’autonomia differenziata, che si scontra con le rivendicazioni dei territori più fragili», commenta.
L’autonomia potrebbe persino diventare controproducente per le Regioni del Nord. Per esempio, la Liguria ha chiesto per sé la gestione delle reti di trasporto e relativi pedaggi. Ora, siamo sicuri che una simile scelta andrebbe a vantaggio delle molte imprese esportatrici del lombardo-veneto che, probabilmente, pagheranno di più l’accesso al porto di Genova? Del resto la Liguria deve finanziarli i propri servizi pubblici, se con l’autonomia differenziata si riducono i finanziamenti dallo Stato. «Se Veneto, Lombardia ed Emilia dovessero trattenere per sé la gran parte dei contributi, la ragioneria centrale dovrebbe segnare un ammanco di 190 miliardi e questo vorrebbe dire accrescere il divario fra Nord e Sud. Se anche dovesse passare una linea più morbida come quella dell’Emilia, l’ammanco sarebbe comunque di 120 miliardi», calcola l’economista Andrea Del Monaco, esperto di Fondi europei.
Calderoli, all’articolo 3 del suo ddl, prevede che per prima cosa il Parlamento determini i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, ovvero i diritti civili e sociali di ciascun cittadino. Peccato che i Lep siano in gestazione da oltre vent’anni e ancora non si è arrivati a una conclusione. Una precisazione doverosa, quella di Calderoli, ma smentita poco dopo nel suo stesso testo dalla possibilità che, se il Parlamento nel giro di un anno non riesce a definire i Lep (evento alquanto probabile), allora l’intesa si poggerà sulla spesa storica. La Regione potrà trattenere tanti quattrini quanti ne ha ricevuti negli anni passati. E qui si apre il fronte delle perplessità dei meridionalisti, visto che storicamente il Sud riceve quattromila euro in meno per ciascun cittadino rispetto al Nord, con il rischio di istituzionalizzare questa ingiustizia.
Ma perché una Regione del Sud dovrebbe caldeggiare una simile riforma? «L’accentramento di maggiore potere nelle mani delle classi dirigenti regionali è una manna dal cielo», risponde ancora Viesti, che invita a rimettere al centro del discorso politico e parlamentare la priorità dei Lep, i livelli minimi di cittadinanza da garantire a tutti i Comuni. Viesti non nasconde le difficoltà: «Raggiungerli è complesso, ma non impossibile. L’unico esperimento di concretizzazione dei livelli essenziali riguarda il diritto dei bambini ad avere un posto in un asilo nido. Con i soldi del Pnrr saranno create le mura dei nuovi nidi, mentre grazie alle analisi di Alberto Zanardi, presidente della commissione tecnica per i fabbisogni standard, dallo scorso anno è stato creato un fondo aggiuntivo in legge di bilancio che assegna a ciascun Comune tanti soldi quanti ne servono per raggiungere il livello essenziale di posti al nido, ovvero uno ogni tre bambini». Così facendo, tra quattro anni tutte le madri e i padri d’Italia avranno grosso modo lo stesso diritto a un servizio di prima infanzia.
Viesti insiste nel mettere al centro il diritto dei cittadini, anziché le prerogative delle Regioni. Tanto più che, come mostrano i grafici di Openpolis, in molti ambiti le disuguaglianze non sono tra Nord e Sud, ma fra aree avanzate o meno di una stessa Regione. Ad esempio, sul diritto al tempo pieno nelle scuole di primo grado, non è vero che il Sud è meno avanzato del Nord. Dalla mappa emerge un’alta diffusione in Emilia, Lazio, Toscana, Basilicata, Calabria, una densità elevata attorno a Milano, ma il deserto in ampie aree di Lombardia e Piemonte. «Zaia lo capisco, ma trattenere il 90 per cento dei tributi è incostituzionale, perché è vero che l’articolo 116 comma 3 della Costituzione dice che le Regioni hanno il diritto di domandare maggiore autonomia, ma è altrettanto vero che l’articolo 53 dice che tutti i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».