L’Italia è il Paese del G20 dove le retribuzioni si sono ridotte in maniera più pesante negli ultimi 14 anni. I compensi dei vertici aziendali, invece, sono trainati al rialzo da bonus e incentivi. Come confermano le relazioni sulle remunerazioni pubblicate in questi giorni dalle società quotate in Borsa e analizzate da L’Espresso

L’Italia è il Paese del G20, il club delle grandi economie mondiali, dove gli stipendi sono calati di più tra il 2008 e il 2022. Lo ha calcolato un ente al di sopra di ogni sospetto come l’Ilo, l’agenzia dell’Onu per il lavoro. Anche in Giappone e in Gran Bretagna i lavoratori hanno visto diminuire le loro retribuzioni nell’arco di questi ultimi 14 anni. Da noi, però, il salario reale si è ristretto del 12 per cento, mentre per britannici e giapponesi la riduzione è stata molto più contenuta, pari rispettivamente al 4 e al 2 per cento. La corsa al ribasso delle retribuzioni ha preso velocità a partire dal 2021 per effetto dell’inflazione. In Francia o in Germania, però, la fiammata dei prezzi non ha bruciato del tutto gli aumenti salariali del decennio precedente. In Italia invece le buste erano già diventate più leggere ben prima che il caro vita cominciasse la sua corsa.

 

Ci vorrà tempo, almeno un paio di anni, prima che l’inflazione torni sotto controllo. Questa è la previsione unanime di tutti i più importanti centri studi. E anche il Documento di Economia e Finanza (Def) pubblicato dal governo a metà aprile indica per fine 2023 un aumento dei prezzi al consumo non inferiore al 5,7 per cento, solo un paio di punti in meno rispetto al 7,6 per cento segnalato dall’Istat per il marzo scorso. Il calo del reddito reale è quindi destinato a proseguire. E anche il taglio del cuneo fiscale promesso da Palazzo Chigi, una manovra che vale 4 miliardi in tutto, potrebbe alla fine risolversi in una mancia, o poco più, per milioni di cittadini.

 

C’è di peggio, però. In questi ultimi anni, mentre l’inflazione colpiva il potere d’acquisto dei salari, è aumentato il divario tra i compensi dei top manager aziendali e gli stipendi degli altri lavoratori dipendenti. I primi sono spesso trainati al rialzo da bonus e incentivi vari, agganciati ai risultati aziendali. Le retribuzioni di impiegati e operai, invece, dipendono in gran parte da contratti nazionali che non riescono a tenere il passo con l’aumento del costo della vita. Le relazioni sulle remunerazioni pubblicate in questi giorni da tutti i grandi gruppi quotati in Borsa confermano che le disuguaglianze aumentano. Il panorama non è omogeneo, ma in generale si può notare che i sistemi di incentivazione dei manager, dal vertice aziendale fino ai cosiddetti dirigenti con responsabilità strategiche, sono costruiti per premiare in modo più che proporzionale eventuali miglioramenti dei conti.

 

In sostanza, la crescita dei profitti ha una sorta di effetto moltiplicatore sui compensi dei manager, che invece possono contare su provvidenziali paracadute se il bilancio perde quota. Anche per questo motivo, negli ultimi tempi sono diventati più frequenti gli interventi critici di alcuni grandi investitori, i cosiddetti fondi attivisti, che si sono mobilitati nelle assemblee dei soci di molte società in Europa e negli Stati Uniti. L’obiettivo comune è quello di arrivare a una revisione di politiche di remunerazione considerate troppo generose. Di recente, nel mirino dei fondi attivisti sono finiti per esempio i compensi dell’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares.

 

Nell’assemblea dei soci di giovedì 13 aprile lo stipendio del numero uno del gruppo è stato bocciato dal 20 per cento del capitale. Un risultato comunque migliore rispetto a quello dell’anno scorso, quando nell’apposita votazione a carattere consultivo i no superarono il 52 per cento. Tenendo conto di bonus e premi in azioni, Tavares può arrivare a guadagnare 23,4 milioni di euro, al lordo delle tasse. Questa somma - si legge nella relazione sulla remunerazione - corrisponde a 365 volte lo stipendio medio di un dipendente del gruppo automobilistico. Meno noto, però, è che questo rapporto, il cosiddetto pay ratio, era pari a 298 nel 2021 e a 218 nel 2020. Nello stesso arco di tempo la retribuzione media dei 282 mila lavoratori di Stellantis è aumentata da 53 mila a 64 mila euro all’anno, ma non è riuscita a tenere il passo con i compensi del capoazienda.

 

Anche all’Eni si è allargato il fossato che separa l’esercito dei dipendenti dai vertici del gruppo. Claudio Descalzi, appena riconfermato dal governo sulla poltrona di numero uno del gruppo petrolifero, ha ricevuto nel 2022 circa 5,8 milioni, frutto di stipendio e bonus, con un aumento di 250 mila euro rispetto al 2021. Se si tiene conto anche dei premi in azioni (ricevute ma non ancora incassate) si arriva quasi a 7,5 milioni. Secondo quanto si legge nella relazione sulle remunerazioni di Eni, il rapporto tra i compensi di Descalzi e lo stipendio medio dei dipendenti del gruppo in Italia era pari a 97 nel 2020, ma il divario è aumentato a 138 punti nel 2021 per ridursi di un punto a 137 l’anno scorso.

 

In un altro grande gruppo controllato dallo Stato come Poste italiane, l’amministratore delegato Matteo Del Fante (anche lui riconfermato per un altro mandato al pari di Descalzi) ha visto aumentare la sua retribuzione complessiva del 2,5 per cento a 2,47 milioni. Stipendi e salari dei 120 mila dipendenti sono invece stabili dal 2019 a una media di 32 mila euro annui. A luglio del 2022 il nuovo contratto di lavoro ha riconosciuto un aumento in busta paga ai lavoratori postali pari in media a 110 euro lordi mensili. È un passo avanti che però difficilmente sarà sufficiente per recuperare il ritardo accumulato in quattro anni di retribuzioni al palo.

 

C’è poco da festeggiare anche in casa Telecom Italia. E non solo perché la vendita della Rete, su cui da mesi è aperta un’asta, potrebbe portare tagli ingenti di personale. La relazione sulla remunerazione segnala che per gli oltre 50 mila dipendenti del gruppo di tlc, di cui 42 mila in Italia, lo stipendio medio è aumentato solo dell’1,5 per cento nel 2022. Se si va indietro fino al 2019, l’incremento non supera il 4 per cento nell’arco di quattro anni. L’amministratore delegato Pietro Labriola è stato invece premiato con un bonus di quasi 2 milioni (1,984 milioni) che è andato ad aggiungersi allo stipendio fisso di 1,3 milioni. Va detto che Telecom Italia ha chiuso il 2022 con i conti in rosso per quasi 3 miliardi, ma l’incentivo del capoazienda era legato all’andamento di alcuni parametri di bilancio, tra cui il margine lordo industriale e la posizione finanziaria netta, che invece hanno fatto segnare un miglioramento. Quanto basta per garantire un premio all’amministratore delegato nonostante il bilancio in perdita.

 

Proprio la questione dei bonus all’amministratore delegato Andrea Orcel è stata al centro di un lungo confronto tra il board di Unicredit e una pattuglia di importanti investitori internazionali. Il 31 marzo scorso il piano di incentivi destinati al banchiere ha infine ottenuto il via libera dell’assemblea. Il 20 per cento del capitale ha però ha votato contro l’aumento dei compensi. A partire da quest’anno Orcel potrà ricevere fino a un massimo di 9,75 milioni di euro, quasi il doppio rispetto a quanto guadagnato nel 2022 dal numero uno dell’istituto di credito. L’aumento di stipendio è stato giustificato dal board con il notevole miglioramento dei conti, chiusi nel 2022 con utile di 5,2 miliardi, il risultato migliore dell’ultimo decennio. Orcel, comunque, è in buona compagnia, visto che l’anno scorso i manager di Unicredit con una retribuzione superiore al milione di euro sono aumentati da 55 a 59. Il gruppo dei cosiddetti high earner è ancora più numeroso tra le fila di Intesa, l’altra grande banca nazionale. Se ne contano 81, contro i 55 del 2021. Grandi stipendi crescono.