L'intervista inedita
Domenico De Masi: «Il neoliberismo ha distrutto i diritti. E il più delle volte lo ha fatto fare alla sinistra»
Il tempo da ritrovare. Il bisogno di amicizia e amore. Le grandi dimissioni. E la ricetta contro la disoccupazione. Riproponiamo il colloquio con il sociologo recentemente scomparso
È una luminosa mattina di primavera. Domenico De Masi è nella sua casa romana, in centro, non troppo distante dal Pantheon. «Da qui si riescono a vedere i profili di tutte le chiese più importanti», dice orgoglioso il professore, sporgendosi sul terrazzino del suo salotto: «Lì, in fondo, si scorge anche la cupola di San Pietro»
De Masi è un grande sociologo. Ha dedicato gran parte della sua vita all’insegnamento e alla ricerca, con la cattedra in Sociologia del lavoro alla Sapienza. «Sono ancora molto legato all’università», confida con leggera malinconia, accarezzando la sua barba bianca.
Ho il privilegio di incontrare il professore per un progetto che riguarda il tema del lavoro come specchio della società che cambia. «Questa mi sembra una frase sacrosanta», scandisce in modo solenne. «Per secoli il lavoro non aveva nulla di dignitoso. Nella Grecia antica, gli uomini liberi non lavoravano per definizione: si dedicavano alla ginnastica, alle arti, alla filosofia. E chi doveva faticare per vivere era una persona di poco rispetto. Poi, però, tutto cambia. Ma bisogna aspettare secoli perché la concezione di lavoro venga riabilitata. Prima nel Seicento, con Locke, e poi nell’Ottocento, con Marx. Per quest’ultimo, lavorare diventa addirittura l’essenza, la cosa più nobile per l’essere umano».
La storia del lavoro ha conosciuto uno spartiacque destabilizzante. «È l’invenzione del telaio meccanico, nell’Inghilterra di fine Settecento. È la prima macchina che riesce a sostituire quasi del tutto un’attività dell’uomo». Una vera rivoluzione, a cui sono seguite, nel tempo, prima la creazione delle macchine elettromeccaniche, a inizio Novecento, e poi lo sviluppo di quelle digitali, verso la fine del “secolo breve”. «E ora c’è l’intelligenza artificiale. È davvero impressionante. Ma impressiona anche la meraviglia di chi la scopre soltanto adesso», dice il professore, con un accenno di sorriso sul volto.
«È in mezzo a noi da anni, e non ce ne siamo accorti», prosegue: «Alla fine, chi di noi usa Siri sul telefono in qualche modo già sperimenta l’intelligenza artificiale», sottolinea. E apre una riflessione: «L’intelligenza artificiale ci riporta un po’ a quel mondo antico dove il lavoro pesante lo facevano gli schiavi. Anche oggi le faccende più faticose le sbrigano gli schiavi, solo che sono meccanici e digitali. Torna così all’uomo un’era di attività intellettuale allo stato puro». Il timore di molti è che l’IA possa eliminare migliaia di posti. Ma sul punto il professore infonde una speranza: «Il lavoro creativo, decisionale e affettivo… Ecco questo rimarrà sempre monopolio degli esseri umani».
Dopo l’elezione di Elly Schlein alla segreteria del Pd, si è riacceso il dibattito sull’introduzione del salario minimo anche nel nostro Paese. Ma c’è una forte opposizione da parte di alcuni, gli facciamo notare. «Un’opposizione soprattutto dei sindacati. Per prepotenza, più che altro», risponde De Masi: «Perché una legge sul salario sfuggirebbe al loro potere. Oggi il salario dipende dalla contrattazione collettiva tra datori di lavoro e, appunto, i rappresentanti sindacali. Ma non si riesce a eliminare la piaga delle retribuzioni scandalosamente basse: occorre quindi una soglia minima, che in tutta Europa c’è, tranne che qui da noi».
Si ferma, riflette, poi aggiunge: «Pd e 5 Stelle hanno da anni delle proposte sul salario. Entrambi sono stati al governo, forse avrebbero dovuto introdurlo all’epoca. Meloni, però, ora è contraria, e la battaglia è in questo momento persa» (l’intervista è stata realizzata nel marzo 2023, ndr.).
C’è un dato che fa spavento. È quello del precariato. «Esiste dall’avvento del neoliberismo, verso la fine degli anni Ottanta. Fino a quella data, avevamo conosciuto una politica economica keynesiana, molto attenta al welfare. Poi, il neoliberismo ha distrutto i diritti. E il più delle volte li ha fatti distruggere proprio dalla sinistra», sostiene il sociologo. Che propone una ricetta contro la disoccupazione: «Come combatterla? Riducendo l’orario di lavoro. In Germania lo fanno già da anni. E i neolaureati lì trovano lavoro subito».
Insomma, lavorare meno per lavorare tutti. «Esatto. E per ottenere la riduzione dell’orario bisogna fare lotte in cui giovani, proletari e sindacati siano d’accordo. Come nel ’68. Che, non a caso, portò allo Statuto dei lavoratori. Ma oggi i sindacati sono molto più arrendevoli. E i giovani preferiscono non lottare».
Interroghiamo il professore su un fenomeno sempre più in circolazione, anche in Italia: le grandi dimissioni. «Ne parlavo già anni fa. In un libro anticipai anche il tema del telelavoro, poi esploso col lockdown». Ma perché molti scelgono di lasciare il loro posto? «Banalmente, perché ne trovano uno migliore. Ma non è questo il punto. L’aspetto principale riguarda chi lascia un lavoro per uno meno pagato o, addirittura, per non cercarne un altro. Lavorare ha due funzioni. Una è strumentale: serve per mangiare. L’altra è espressiva: lavorando esprimiamo la nostra personalità. Il lavoro organizzato in modo taylorista, come in gran parte delle aziende, spesso opprime propri i bisogni espressivi. Con turni lunghissimi, non ho possibilità di coltivare i bisogni di amicizia, amore, bellezza, gioco, convivialità. Chi si dimette, dunque, fa una scelta: preferire l’autorealizzazione alla schiavitù. Elimina i consumi e, in cambio, coltiva quei bisogni di amore e di bellezza. Perché è necessario coltivare questi bisogni». Lascio il professore, che torna nel suo studiolo, tappezzato da centinaia di libri e illuminato da una luce dolce. Domenico De Masi è morto il 9 settembre scorso, appena tre settimane dopo aver scoperto una malattia invasiva.