Con l’Intelligenza artificiale i datacenter diventano sempre più energivori. I colossi investono dove dispongono di fonti a basso prezzo. Per l’Italia un altro problema

Sembra un film di fantascienza tipo “Ritorno al Futuro”, girato negli anni Ottanta. Perché, sì, all’epoca il nucleare poteva ben fare da sfondo a un racconto di fantascienza.

Ma non è un film. È realtà di questi giorni. Un’energia che pensavamo relegata a un passato oscuro – guerra fredda, Chernobyl, Unione Sovietica – si sta mostrando necessaria per il nostro futuro. Quello fatto di intelligenza artificiale; innovazioni che cambiano il lavoro, le città, la vita.

Microsoft, Google e Amazon stanno stringendo in questi giorni accordi miliardari con diversi costruttori e operatori per aggiudicarsi l’energia di reattori nucleari negli Stati Uniti. Alcuni da costruire, altri da riadattare, sempre a loro uso e consumo.

C’è che serve tantissima energia – e sempre di più – per alimentare i datacenter mondiali, quelle strutture piene di computer e cavi che danno i servizi Internet a tutti noi.

I datacenter che offrono servizi di intelligenza artificiale (Ia) richiedono in media dieci volte più energia, necessaria per i complicati calcoli con cui questi servizi generano testo, immagini, video. Ogni immagine creata equivale a una ricarica completa di cellulare (secondo la Carnegie Mellon University).

Al tempo stesso, serve moltiplicare il numero di datacenter, per soddisfare la crescente domanda di servizi digitali da parte di utenti e aziende.

Fattori che, assieme, causano un picco di consumi energetici e delle relative emissioni inquinanti. Una fonte istituzionale, l’Agenzia Internazionale dell’Energia, prevede che i datacenter consumeranno più di 800 TWh a livello globale nel 2026, il doppio rispetto al 2022.

Il tema riguarda anche l’Italia, dove, tra il 2023 e il 2025, 23 aziende – Big Tech ma non solo, c’è anche l’italiana Aruba – costruiranno 83 datacenter. Già ora l’aumento di consumi è stato del 23 per cento rispetto al 2022. Nel 2025 l’energia consumata potrebbe essere il doppio del 2023, secondo una stima del Politecnico di Milano. La questione ha però diverse sfaccettature. Pesano anche fattori economici e geopolitici. La presenza di datacenter porta investimenti – 15 miliardi previsti in Italia dal Politecnico – lavoro, innovazione, con un beneficio per il territorio, secondo il Politecnico e altri ricercatori. Non è un caso che il governo sia molto favorevole a stringere accordi con Big Tech e altri attori per attirare questi investimenti, come visto in vari episodi. Da ultimo, a ottobre, un tavolo di lavoro varato durante un incontro tra la premier Giorgia Meloni e il capo del fondo di investimento Usa BlackRock, Larry Fink.

La sfida, per ciascun Paese, è ora però trovare il giusto bilanciamento tra interessi politico-economici e temi energetici.

Le Big Tech intanto vanno avanti. Hanno investito molto in energie rinnovabili, ma ora hanno capito, con il boom dell’Ia, che non basta; devono avere anche una fonte d’energia super affidabile e continua. Come il nucleare, appunto. Energia pulita, che però porta con sé lunghi e incerti tempi di costruzione e l’irrisolto problema delle scorie da stoccare. Nell’immediato le emissioni di gas serra aumenteranno, a causa dei datacenter; quelle di Google già del 48 per cento rispetto al 2019 e quelle di Microsoft del 29 per cento sul 2020 (secondo loro dichiarazioni), anche se entrambi confidano di invertire la rotta entro il 2030. Grazie a datacenter più efficienti e, di nuovo, al nucleare. I datacenter poi consumano acqua ed energia che in alcuni Paesi sono risorse scarse. C’è il rischio di un aumento dei prezzi dell’energia o di blackout (per sovraccarico della rete). Negli Usa i datacenter già hanno causato la crescita dei prezzi (stima Bank of America). In Italia, dove l’energia costa in media di più e non ci sono centrali nucleari, il problema potrebbe essere più serio. «Secondo un mio studio, da noi oltre il 50 per cento del costo di un datacenter va in energia; il doppio rispetto ad altri Paesi. Non ci conviene», dice Stefano Quintarelli, saggista e uno dei padri dell’Internet commerciale italiana. Singapore, su presupposti simili, ha fatto leggi per limitare la proliferazione di datacenter.

Ma è un esempio più unico che raro. Di solito, i territori – allettati dai vantaggi promessi – fanno a gara per avere datacenter. «Gli investimenti per costruirli vanno a beneficio della filiera costruttiva italiana, di aziende del territorio. Parte dei soldi finisce nelle casse comunali e sono poi usati per opere di riqualificazione», spiega Marina Natalucci del Politecnico di Milano. «Spesso gli stessi datacenter riqualificano aree industriali dismesse. Ci sono già esempi positivi come Settimo Milanese, Cornaredo a Milano; Ponte San Pietro a Bergamo». «Il datacenter poi può diventare hub per lo sviluppo della filiera digitale sul territorio circostante, com’è avvenuto per il tecnopolo di Bologna. Aiuta a sviluppare competenze, a creare aziende innovative», aggiunge Natalucci. «I benefici sono evidenti», conferma Stefano da Empoli, economista e presidente dell’osservatorio I-Com. «Impatto economico diretto e indiretto derivante dall’investimento, maggiore qualità per i servizi digitali sviluppati sul territorio e dunque benefici per le imprese che li forniscono e cittadini e aziende che li utilizzano». Ultimo punto, «maggiore sicurezza e privacy garantite dal fatto che i dati dei servizi Internet possano rimanere entro i confini nazionali». Ecco: c’è anche un’esigenza di sicurezza e sovranità nazionali.

«Non possiamo permetterci di essere totalmente dipendenti da capacità di calcolo estera. Il tema della sovranità digitale sarà sempre più centrale», dice Stefano Epifani, presidente della Fondazione per la Sostenibilità digitale, materia che insegna all’Università degli studi di Pavia.

Ecco perché adesso «c’è uno scontro tra Stati Uniti e Cina per la creazione di datacenter», aggiunge Antonio Deruda, autore di “Geopolitica digitale. La competizione globale per il controllo della Rete” (Carocci Editore, 2024).

«Non è un caso che si facciano datacenter soprattutto nell’Indo-Pacifico, che è anche ora la zona più calda del pianeta per la conflittualità tra Usa e Cina – aggiunge – entrambi stanno rafforzando la propria presenza, anche con datacenter, nei Paesi alleati. Per la Cina: Vietnam, Indonesia. Per gli Usa: Corea del Sud, Australia». Prima erano solo le basi militari a segnare il risiko mondiale; ora ci sono anche datacenter. E cavi sottomarini. Punti di presidio economico e geopolitico. Dati e servizi Internet stanno dietro a scambi commerciali, attività (e segreti) militari. Le due superpotenze non vogliono fare affidamento su infrastrutture controllate, anche solo in parte, dal rivale.

Ne deriva che avere tanti e grossi datacenter, con i loro relativi cavi terrestri e sottomarini che costituiscono l’Internet globale, è sempre più importante per un Paese. «Significa essere al centro delle nuove rotte digitali da cui passano soldi e interessi di vario tipo. Per l’Italia ora c’è una grande opportunità che vediamo già manifestarsi con nuovi datacenter a Roma e cavi sottomarini nel Mediterraneo», spiega Maurizio Goretti, direttore di Namex, il consorzio di Roma che è il principale hub Internet centro-meridionale (a Milano c’è il suo analogo, il Mix). «Vediamo un crescente ruolo di Genova e Roma per queste infrastrutture, in collegamento con l’Africa, dove ci sarà il principale boom di Internet nel mondo», conferma Deruda. L’Italia andrà avanti su questa strada, quindi. E «difficilmente potremo fare a meno del nucleare» per sostenerla, riassume Epifani.