Conti pubblici
Entrate, qui serve un miracolo
Il governo deve aumentare gli incassi, ma non vuole dire che ci sono più tasse. E allora inventa in manovra un artificio contabile per anticipare gli introiti dalle banche
La legge annuale di bilancio rappresenta sempre un momento di riflessione su ciò che si è fatto (o non fatto) e su ciò che si intende fare. Ed è il non fatto che pesa di più perché obbliga a soluzioni dell’ultima ora, inevitabilmente protese alla mera quadratura del cerchio.
Molti hanno detto delle “uscite”; concentriamoci allora sulle “entrate”. La parte fiscale della manovra è fatta di conferme (cuneo fiscale, assegno unico, aliquote Irpef) che rendono definitivi miglioramenti introdotti lo scorso anno, ma per un anno solo. La stortura stava nella prospettazione per il solo 2024. Sarebbe stato ingestibile non confermarla per gli anni a venire: ma va certo dato atto che essa è intervenuta. Le fonti sono, invece, molto discutibili e forse anche evanescenti. Esse derivano essenzialmente dal prelievo sulle banche, da non meglio precisati incrementi sui valori catastali, da tagli lineari alle spese ministeriali.
L’intervento sulle banche era atteso e mediaticamente giustificato dal buon andamento dei relativi conti. Pur presentando qualche difficoltà di ordine costituzionale, non sarebbe stato impossibile disporre un prelievo modellato su quello degli extraprofitti indicato nel 2023 dalla Commissione europea per il settore energetico. Una tale scelta, però, avrebbe comportato qualche discussione con la Bce, ma soprattutto evidenziato che una nuova tassa veniva introdotta. Né sarebbe stato impossibile, in alternativa, aumentare – anche solo temporaneamente – l’aliquota dell’imposta sui redditi per le banche. Queste pagano già una maggiorazione del 3,5% rispetto ad altri settori e un suo incremento avrebbe avuto il pregio della facilità di applicazione, della incontestabilità costituzionale, della neutralità della Bce. Ma anche qui il difetto insuperabile stava tutto nella impossibilità di negare che le tasse venivano aumentate e non diminuite. Occorreva, dunque, mirare a una misura idonea a fare cassa ma con una formulazione che non si potesse leggere come nuovo tributo né come aumento di un tributo esistente. Insomma: un miracolo.
Ed eccolo il miracolo. Le banche svalutano sistematicamente una parte del valore dei propri prestiti perché non tutti i debitori pagano regolarmente alla scadenza. Si tratta di rischi tipici dell’attività bancaria e la svalutazione del credito iscritto in bilancio è un sano istituto idoneo a evitare l’accumularsi di situazioni di pericolo che devono essere fronteggiate a mano a mano che si verificano. Sennonché il quantum da svalutare deriva da considerazioni aziendalmente fondate, ma certo opinabili. Per questa ragione le norme fiscali prevedono un tetto massimo alla deducibilità della svalutazione nell’anno in cui essa viene operata. La parte che supera il tetto resta deducibile: ma va spalmata in un certo numero di anni (nel tempo essa è variata più volte passando da 5 a 9 anni). Ne consegue uno squilibrio fra il risultato del bilancio redatto secondo il Codice civile (in cui la svalutazione è dedotta per l’intero) rispetto al risultato fiscale (in cui essa è dedotta solo in parte e rinviata, per l’eccedenza, ad annualità successive). L’importo rinviato alle annualità successive costituisce una «attività per imposte differite» (in gergo: Dta). Lo stesso fenomeno, pur con meccanica diversa, si verifica anche per altre voci, prime fra tutte la deduzione di quote di ammortamento del costo dell’avviamento pagato in caso di acquisizione di un’altra azienda o di un’altra società. Questi meccanismi, pur discutibili, hanno il pregio di garantire una certa stabilità nel prelievo e svolgere, quindi, una funzione anticiclica nei momenti di maggior crisi facendo gravare sulle banche un certo sostegno al sistema economico nel suo insieme. Ma conseguenza è che le quote di Dta da recuperare (dedurre) sono ormai così importanti da azzerare o quasi l’imposta dovuta sugli utili di periodo.
Ebbene il miracolo si compie sospendendo per due anni la deduzione della quota annuale di Dta e rinviandola al triennio successivo. Insomma: i benefici subito; i malefici a chi governerà fra tre anni. Lo Stato prende a prestito un importo corrispondente alle Dta che avrebbero potuto essere dedotte quest’anno (2025) e il prossimo (2026) e si impegna a restituirle spalmandole nei tre anni successivi (2027, 2028, 2029). Quindi: ci sono nuove entrate; nessuna nuova imposta; nessun incremento di imposte già esistenti.
L’intervento sugli immobili che hanno usufruito del Superbonus parte, apparentemente, da una constatazione di mera logica. Chi ha fatto lavori rilevanti sul proprio immobile tali da meritare il beneficio del 110% ha certamente accresciuto il valore dello stesso. Questa novità va riflessa nel valore catastale. Questa constatazione – cioè il necessario aggiornamento sistematico dei valori catastali – è talmente ovvia che le varie versioni di progetti di legge di riforma tributaria discusse negli ultimi cinque anni prevedevano una revisione sistematica dei valori catastali con un’ovvia particolare attenzione alle case fantasma. Sennonché la legge poi effettivamente approvata dall’attuale maggioranza (l. 111/ 2023) ha stralciato proprio le norme in materia di revisione del catasto. Consegue che la pur condivisibile revisione dei valori catastali per chi ha beneficiato di agevolazioni di ordine tributario mette bene in luce la cecità della scelta di stralciare dalla riforma fiscale un pezzo così importante da meritarci le reprimende della Commissione europea che non perde occasione per ricordarci che occorre riequilibrare il prelievo proprio su quel fronte. E qui non c’è niente da nascondere. In fondo il beneficio in questione viene dai governi precedenti. Una (giusta) limitazione del relativo valore non è la fine del mondo.
Che dire, infine, dei tagli lineari alle spese ministeriali? Mah: così fan tutti!