Tendenze
Qualche rimedio per curare il lavoro che soffre
Salari bassi, scarsa produttività, fuga dei cervelli. Sono i problemi che pesano sulla situazione italiana. Parla il presidente di Adecco, multinazionale delle risorse umane
Flessibilità, formazione e innovazione: sono queste le parole chiave che, opportunamente potenziate, potrebbero dare un ulteriore impulso al nostro mercato del lavoro e “curare” alcune gravi patologie di cui ancora soffre. Come i salari bassi, la scarsa produttività, il mismatch tra domanda e offerta, la fuga dei cervelli. A prima vista sembra una ricetta facile, ma non lo è. Perché alla base delle distorsioni c’è una mentalità imprenditoriale che mostra ancora un’eccessiva avversione al rischio. C’è un sistema formativo autorefenziale, che non “parla” - o lo fa troppo poco - con chi i posti di lavoro li crea, ovvero le aziende. C’è uno Stato che ancora non ha capito la portata rivoluzionaria degli investimenti in ricerca e sviluppo che restano quindi troppo bassi. Cristophe Catoir è il presidente di Adecco Global, società che si occupa di risorse umane, presente in 60 Paesi con oltre 34.000 dipendenti e un portafoglio di circa centomila aziende. In Italia Adecco, con 300 filiali, è la prima agenzia per il lavoro e impiega mediamente ogni giorno circa 55.000 persone. Per la sua posizione Catoir dispone di un osservatorio privilegiato sulle tendenze occupazionali dei vari mercati. Questa con L’Espresso è la sua prima intervista a una testata italiana.
Per numero di occupati, ore lavorate, tipologia di contratti, i dati sull’occupazione in Italia non sono mai stati così buoni.
«Sì, è vero. In media il tasso di occupazione in Europa è in discesa. L’Italia invece è un’eccezione con i suoi dati positivi. Il tasso di disoccupazione è sceso al 6,1%, così basso in Italia non lo si vedeva da tempo. State facendo meglio di tanti altri Paesi dell’Europa del Nord, in particolare di Germania e Regno Unito».
Eppure questi dati positivi non bastano a diagnosticare la buona salute del nostro mercato del lavoro. Che soffre di una serie di patologie, alcune anche gravi. Partiamo dai woorking poor: sono il 12% dei lavoratori italiani, circa tre milioni di persone che con il solo stipendio non riescono ad arrivare a fine mese in modo dignitoso. In Italia da tempo si discute dell’introduzione del salario minimo. Potrebbe essere una soluzione oppure - come sostengono i contrari - sarebbe una norma inutile dato che in Italia la stragrande maggioranza dei lavoratori del settore privato, ben il 96,5%, è garantito da contrattazione collettiva?
«Gli stipendi devono permettere di far vivere bene le persone che lavorano. È anche vero, però, che per la generazione Z contano molto fattori come la libertà, la flessibilità e il well-being ovvero il benessere. Secondo i nostri dati, il 60% della motivazione che spinge le persone ad accettare di lavorare per un’azienda e non per un’altra è rappresentato dal fattore salariale, a sua volta diviso in due: il salario vero e proprio e le condizioni offerte a chi cerca impiego. Una variabile molto importante - come dicevo - è la flessibilità oraria. Uscendo dalla sfera individuale, la vera sfida comunque è sulla competitività. Soltanto vincendo questa sfida si creano più posti di lavoro, ampliando le opportunità per gli stessi lavoratori».
La competitività non può essere basata solo sul contenimento dei costi, come quello del personale.
«Infatti il fattore principale è la qualità del prodotto offerto. Ci sono Paesi, come Svizzera e Germania, che riescono a tenere alta la qualità con un occhio ai costi, senza però penalizzare gli stipendi dei loro lavoratori».
E come ci riescono?
«Rivolgendosi ai Paesi terzi dove la manodopera costa di meno per subforniture che non richiedono alta specializzazione. Penso ai call center, ad esempio. In questo campo va molto forte l’India dove la conoscenza dell’inglese è molto diffusa, le paghe sono decisamente più basse rispetto a quelle europee, la dotazione tecnologica è ottima. Contestualmente però in casa ci si deve concentrare sulla parte tecnologicamente più avanzata che richiede standard qualitativi alti. E per fare questo bisogna poter contare su un sistema di istruzione e formazione adeguato».
Ovvero uno dei punti deboli in Italia. Giusto?
«In Italia ci sono eccellenti scuole e centri di formazione, ma manca la stretta collaborazione tra pubblico e privato, indispensabile per indirizzare i programmi formativi verso le esigenze del mercato del lavoro. Altrove ci sono tanti esempi a cui poter attingere. Prendiamo Singapore: lì si trova forse la migliore manodopera al mondo. E la disoccupazione è a livelli fisiologici, il 2%. La ricetta sta proprio nella stretta collaborazione tra Stato e sistema produttivo: ogni tre mesi ci sono incontri con le maggiori industrie, in seguito ai quali lo Stato modifica immediatamente i corsi di formazione per renderli più attinenti agli skill richiesti».
Il modello Singapore è interessante, ma parliamo di uno Stato molto più piccolo rispetto all’Italia. Secondo lei, la scarsa produttività che affligge il mercato del lavoro italiano, dipende solo dalle lacune nella formazione oppure qualche colpa ce l’hanno anche le aziende che non innovano abbastanza?
«Non soltanto l’Italia, l’Europa intera è in ritardo sull’innovazione tecnologica. Pochi giorni fa ero a una riunione a Londra e si commentavano alcuni punti dell’ormai famoso report di Mario Draghi. Nel documento si fa riferimento alle performance degli americani oltremodo migliori rispetto a quelle dell’Unione europea. L’America è riuscita a lavorare molto di più sulla tecnologia. Prendiamo i giganti tecnologici: i primi 5 al mondo sono statunitensi. In Europa i Paesi che fanno più fatica in questo campo sono Italia, Francia e Spagna. È anche un problema culturale, soprattutto delle piccole aziende che mostrano ancora una grande avversione al rischio. E poi in Italia si tende ad assumere soprattutto in base alla lunghezza del curriculum vitae. Diplomi e lauree sono importanti, ovvio. Ma il fattore motivazionale del lavoratore lo è altrettanto. Adecco ogni anno assume in Italia tremila rifugiati (85.0000 nel mondo), perché sono persone che in genere hanno un altissimo livello motivazionale e verifichiamo costantemente che, ad esempio, l’assenteismo da parte di queste persone è bassissimo».
Anche con lo smart working l’assenteismo è crollato. Eppure, dopo l’esplosione durante l’epidemia di Covid, sono sempre di più le aziende che stanno facendo marcia indietro riducendo i giorni consentiti ai loro dipendenti per il lavoro da remoto o abolendolo del tutto. Come mai, secondo lei?
«Quello che dice sull’assenteismo è vero, all’inizio era proprio ciò che si constatava. Attenzione però, perché sono in aumento i casi di burnout, non lavorare mai a contatto con gli altri fa male. La soluzione ottimale spesso sta nel mezzo: 2-3 giorni in presenza, il resto - per i lavori in cui è possibile - da remoto».
L’Intelligenza artificiale nel tempo distruggerà posti di lavoro o, al contrario, concorrerà all’aumento degli occupati?
«La tecnologia è sempre positiva. Non bisogna averne paura. Alcuni lavori potrebbero scomparire, ma ne saranno creati altri. Di maggiore qualità, con standard più elevati. Ripeto, la formazione è indispensabile».
Sì, però, anche se il saldo alla fine sarà positivo, chi lavora in settori più obsoleti e magari non è nemmeno tanto giovane, qualche problema ce l’ha. Pensiamo ad esempio a quello che sta succedendo nell’automotive con il passaggio all’elettrico. A volte i programmi di riqualificazione non bastano. Come fare per non lasciare nessuno indietro?
«La rivoluzione digitale e tecnologica in corso non si fermerà. È vero, certi impieghi, certi posti di lavoro non ci saranno più o saranno fortemente ridotti. È anche vero che la tecnologia crea incessantemente nuove mansioni, nuove professioni. Pensi a quante migliaia e migliaia di nuovi posti di lavoro hanno creato i social network. Diventa cruciale il concetto di impiegabilità e di upskilling, quindi miglioramento delle competenze. A questo proposito è molto interessante il risultato di un’indagine che abbiamo fatto in Adecco, basata su interviste a 35.000 persone, di cui 3.000 in Italia: Il 40%, sa di avere carenze di conoscenze tecnologiche, teme il futuro e ha mostrato segni di burnout sul posto di lavoro; la percentuale sale al 61% in chi ha già a che fare con l’Intelligenza artificiale».
La disoccupazione giovanile in Italia viaggia ancora a livelli altissimi. Cosa consiglierebbe a un giovane, quali sono i lavori del futuro?
«Ora ci sono alcuni settori che stanno andando molto bene: tutto l’ambito della sanità, la tecnologia in generale, le energie pulite, la logistica e il trasporto».
Gli immigrati sono una risorsa o una minaccia?
«Sull’immigrazione serve un dibattito razionale, e invece vediamo che da qualche parte si è scivolati sull’irrazionale. Gli immigrati sono assolutamente una risorsa. Soprattutto in Paesi che presentano un forte calo demografico. Alcune mansioni sono diventate non attraenti per i nostri giovani e quindi serve qualcuno che sia disposto a svolgerle. Occorre però - e spesso non accade - una immediata formazione linguistica per chi arriva, così da facilitarne l’integrazione».
Ancora troppi giovani talenti italiani decidono di trasferirsi all’estero. Che cosa manca all’Italia per contrastare la fuga di cervelli?
«Una remunerazione adeguata, assieme a un programma pubblico-privato di investimenti in tecnologia e in formazione. Senza ricerca e sviluppo non si potrà avere un futuro brillante. E i giovani ne sono consapevoli».