Made in Italy
Anche la moda paga dazio
L’aumento delle aliquote sulle importazioni annunciato dal nuovo presidente Usa preoccupa la filiera italiana. E per la prima volta da oltre dieci anni il lusso non cresceràI
Il fulmine dei dazi americani, non a ciel sereno, rischia di abbattersi sul settore moda. L’annuncio di un inasprimento fiscale del neopresidente Donald Trump minaccia di rallentare la crescita per tutto il settore che nell’export ha uno dei suoi punti di forza. Nei primi sette mesi del 2024, secondo i dati del centro studi di Sistema Moda Italia-Federazione Tessile e Moda, le esportazioni verso gli States hanno fatto segnare una crescita del 3,4 per cento. Un incremento positivo che potrebbe però sparire se le aliquote dovessero aumentare dal 10 al 20 per cento. L’ultima edizione dell’indagine “The State of Fashion” realizzata da McKinsey&Company e BoF Insights, fotografa un 2025 turbolento che, per la prima volta negli ultimi 14 anni, non vedrà il segmento lusso contribuire alla crescita del settore. Inoltre, i fattori di rischio sono rappresentati dalla perdita di fiducia da parte dei consumatori - sempre meno propensi agli acquisti di abiti o accessori - e dall’instabilità geopolitica. Un esempio lo forniscono i costi per le spedizioni attraverso il Medio Oriente che, tra dicembre 2023 e febbraio 2024, sono quintuplicati: sul lungo raggio, un qualsiasi tipo di consegna fra Asia e America del Nord ha segnato un incremento del 165 per cento.
«La posizione di Trump è piuttosto aggressiva, anche rispetto al suo primo mandato, ma ci saranno aggiustamenti e arriveremo a gennaio con un aumento dei dazi intorno al 10 per cento», prevede Raffaello Napoleone, amministratore delegato di Pitti Immagine. Sul fronte delle aziende italiane radicate nel continente americano, ma che propongono un prodotto di alta gamma, la preoccupazione maggiore è quella di non incidere troppo sul prezzo finale di un capospalla o di un paio di stivali da donna. «Penso che i dazi imposti dagli Usa penalizzeranno soprattutto la fascia di mercato medio-bassa», afferma Claudio Marenzi, presidente Herno, azienda storica di Lesa in provincia di Novara che annovera gli Stati Uniti come terzo mercato con una quota del 12 per cento del fatturato. E che ha da poco inaugurato il secondo monomarca a New York. «Il mercato americano è notoriamente protettivo e questo vale sia per le scelte dei democratici che dei repubblicani. L’incidenza dei dazi varia dal 5 al 25 per cento a seconda delle materie prime: per esempio il cotone ha un dazio alto perché loro sono grandi coltivatori di cotone, mentre il cachemire ha aliquote più basse. Sicuramente saranno avvantaggiate le aziende che sono riuscite a mettere in piedi società proprie negli Usa», aggiunge Marenzi, già presidente di Sistema Moda Italia e di Confindustria Moda. Per il consumatore finale nei prossimi mesi non sono attese buone notizie. «Pagherà un capo di abbigliamento fra il 7 e il 10 per cento in più. Per quanto ci riguarda, nonostante la stagione difficile per il comparto, abbiamo mantenuto prezzi corretti». «L’atteggiamento verso un possibile aumento dei dazi è quello di mantenere stabilità nel posizionamento, nel prodotto e nel prezzo, osservando l’evoluzione degli eventi», spiega Sara Giusti, general manager della Attilio Giusti Leombruni di Montegranaro, marchio a lavorazione artigianale che deve un terzo del suo fatturato al mercato statunitense e che negli States ha una sua sede. «In questo momento non premierebbero azioni preventive ingiustificate. Quel che serve, in questo periodo di incertezza, è un approccio coerente».