Il numero delle filiali e degli sportelli che chiudono è in aumento. Un processo che ha preso il nome di "desertificazione bancaria" e colpisce soprattutto il Sud. Con non poche conseguenze

È un segno dei tempi, forse. L’anno scorso hanno chiuso i battenti in Italia 826 sportelli bancari (677 nel 2022). Nel complesso, la perdita del 2023 è stata del 3,9%, ben 134 i nuovi Comuni “bank free” e non si tratta – per i sindacati e una buona parte dei cittadini – di una liberazione positiva. In tutto sono 3.300 in questa condizione, il 41,5% dei campanili tricolori.

 

Un processo implacabile e in crescendo che riguarda, ormai, un quarto del territorio nazionale. La chiamano desertificazione bancaria, e la locuzione rende eco-plasticamente l’idea. È lievitato, contestualmente, il numero di persone che non hanno accesso a nessuna filiale nel Comune di residenza: sono 4 milioni e 373 mila, 362 mila in più rispetto a un anno prima. Oltre la metà di queste si è vista sparire l’ultimo presidio bancario fisico dal 2015 a oggi. Mentre sale anche la quota di imprese che sono state private di una banca di prossimità, con sede in un luogo che ne fa a meno: sono 255 mila (+22 mila sul 2022). Pure per loro, specie se piccole, la ritirata bancaria configura un problema rilevante, astratto e spicciolo: meno connessione ideale con i centri decisionali, meno possibilità concreta di credito. Altre 390 mila si trovano in posti con un solo sportello. A proposito, i Comuni che ne contano appena uno rappresentano il 24% del totale e vi abitano 6 milioni di persone. E se lo tengono stretto, temendo un rapido e ulteriore peggioramento.

 

Le cifre racchiuse nell’aggiornamento dell’Osservatorio sulla Desertificazione bancaria di First Cisl, che ha elaborato i dati di Banca d’Italia e Istat disponibili al 31 dicembre, inducono insomma a un pessimismo in bianco e nero, più che tech: sarà che la propagazione dell’internet banking è modesta nel Belpaese, lo adopera il 51,5% degli utenti a fronte di una media Ue del 63,9%. E poi il mondo online non potrebbe mai sostituire in toto, almeno al momento, essenziali abitudini secolari “offline” radicate nei più «fragili, gli anziani in primis, così come nelle persone con un basso livello di istruzione, che hanno scarse competenze tecnologiche – spiega Riccardo Colombani, segretario generale First Cisl – le chiusure dipendono dalla volontà di tagliare i costi, non dalla diffusione del digitale». Colombani parla di «allarme sociale» e preconizza un 2024 di accelerazione delle serrande abbassate «in base all’attuazione dei piani di impresa delle banche». Il pericolo interessa, tendenzialmente, soprattutto le aree interne. Ma è arrembante nell’intera penisola: le regioni più colpite l’anno scorso dalla desertificazione bancaria sono state le Marche (-6,7%), l’Abruzzo (-5,1%), la Lombardia (-5,1%), la Sicilia (-5%) e la Calabria (-4,2%). Le province meno desertificate, d’inverso, sono quelle di Barletta-Andria-Trani, Brindisi, Grosseto, Ragusa, Ravenna, Reggio Emilia e Pisa. Le grandi città si stagliano in posizioni più arretrate: Milano è 24esima, Roma quarantesima, Napoli cinquantesima. In fondo troviamo Vibo Valentia e Isernia. La decrescita non sembra granché felice e Oltreoceano, nel cuore storico dell’Occidente e del progresso, le cose vanno in direzione opposta: «Negli Usa due colossi come Jp Morgan e Bank of America stanno aprendo centinaia di filiali, e continueranno a farlo nei prossimi anni – aggiunge il segretario First Cisl – è un segnale chiaro: la presenza territoriale fa bene alla società e anche ai bilanci delle banche».

 

Del resto, queste ultime sono sempre state una cerniera preziosa del nostro tessuto sociale ed economico, qualcosa di simile alle poste o alla farmacia nella vita di un quartiere metropolitano o di un borgo. Non degli algoritmi lontani o delle mere rivendite di prodotti finanziari, e nemmeno dei Bancomat in pianta stabile: il prelievo non è l’unico servizio possibile e la stessa moltiplicazione dei Pos ha nulla di evangelico senza l’assistenza e la consulenza umana. A 360 gradi. Intervistato dal Gr1 Antonio Patuelli, presidente nazionale dell’Abi (Associazione bancaria italiana), ha affermato: «Ci sono parti del Paese che vedono calare da decenni la popolazione e anche gli sportelli bancari non riescono a reggere i loro conti economici».

 

Eppure i bilanci dei grandi istituti viaggiano a gonfie vele. I principali gruppi, in testa Unicredit e Intesa Sanpaolo (e comprendendo nel calcolo le controllate di Crédit Agricole e Bnp Paribas), hanno registrato infatti, nel corso del 2023, profitti netti da record, intorno ai 25 miliardi di euro. Le fusioni del sistema sono ora lo standard, negli ultimi trent’anni la quantità di banche italiane sul territorio si è più che dimezzata: nel 1993 erano più di mille, adesso poco più di 400 e l’appeal ristagna. Ma in una nazione invecchiata come la nostra, in perenne riflusso demografico e dispersione geografica (e non certo all’avanguardia quanto all’utilizzo delle tecnologie), la “razionalizzazione” delle banche in loco ha le stimmate dell’esclusione di enormi pezzi di comunità. Anche sotto il profilo occupazionale. «La loro presenza va invece garantita attraverso incentivi reputazionali ed economici alla territorialità. Serve inoltre la costituzione di osservatori regionali sull’attività bancaria», ha annotato, in un’altra occasione, Riccardo Colombani. Come quello in via di inaugurazione in Basilicata, dopo le chiusure già arrivate o minacciate. Dentro al progetto ci sono tutti: la politica, le organizzazioni sindacali, l’Anci e l’Abi regionale. La lotta alla desertificazione bancaria parte dal Sud.