Lotte per l’egemonia

L'Europa ha già perso la sfida mondiale dei chip

di Eugenio Occorsio   4 aprile 2024

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Taiwan detiene il 90% del mercato mondiale. Stati Uniti e Cina investono miliardi nella produzione. Sulla tecnologia fondamentale per l’Ia si gioca una partita decisiva. E il Vecchio Continente è fuori

Lo chiamano “Silicon shield”, lo scudo di silicio. Difende Taiwan dalle mire della Cina, che vorrebbe riassorbila fin da quando nel 1949 i nazionalisti filoamericani di Chiang Kai-shek si chiusero nell’isola mentre Mao Tse-tung fondava la Repubblica Popolare. Da 75 anni, Taiwan – 23,9 milioni di abitanti e 36 mila chilometri quadrati contro 1,5 miliardi e 9,6 milioni di chilometri quadrati del gigante a fianco – tiene stretta la sua indipendenza, sotto l’ombrello protettivo degli americani: «Un’invasione cinese avrebbe conseguenze disastrose», ha avvertito senza troppi complimenti Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale, all’atto di finanziare in febbraio con 80 milioni di dollari l’acquisto di armi del governo di Taipei, la prima volta che accade.

In tutti questi anni, Taiwan ha vissuto uno sviluppo straordinario, specializzandosi con lungimiranza nella tecnologia dei chip (semiconduttori o microprocessori). Ha equipaggiato ogni congegno elettronico che via via è apparso, fino a superare sé stessa: la Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (Tsmc) è dominante nei chip più avanzati, a tre nanometri (un nanometro è un miliardesimo di metro), che servono per l’intelligenza artificiale e per gli algoritmi essenziali per i sistemi di difesa di ultima generazione, gli smartphone più recenti come l’iPhone 15, i server dei più avanzati centri di calcolo. Taiwan detiene il 90% del mercato mondiale. «È un caso senza uguali di superspecializzazione in un settore cruciale per lo sviluppo mondiale», commenta Moreno Bertoldi, consulente dell’Ispi. «Una situazione che mette l’isola, separata dall’ostile colosso cinese da uno stretto di 180 chilometri nel Pacifico, al centro di una partita geopolitica cruciale, con derivazioni e terminali in ogni angolo del pianeta».

Il colosso dell’Ia, Nvidia, Apple e le altre Big Tech disegnano le applicazioni elettroniche nei loro stabilimenti, ma commissionano il componente-base, appunto i chip, alla Tsmc, che ha fatturato nel 2023 l’equivalente di 70,2 miliardi di dollari su 801 di Pil di Taiwan. «Sconosciuta ai più, è una potenza nell’hi-tech», conferma Luigi Capello, che con i suoi “incubatori” ha tenuto a battesimo decine di startup nel software avanzato: «È come una tipografia, che stampa quello che il cliente gli chiede: lo sviluppatore di Ia o di auto elettriche ha bisogno di chip sofisticatissimi e la Tsmc è quasi l’unica al mondo a produrli». Minore è il numero dei nanometri, più chip si possono assemblare nella parte “pensante” di un dispositivo elettronico. «L’intelligenza artificiale ha bisogno di una memoria e una potenza inusitate», aggiunge Capello. «C’è un problema di consumi: interagire con modelli linguistici avanzati come quelli dell’Ia ha un costo energetico dieci volte superiore rispetto a una normale ricerca basata su parole chiave». Una query su Google utilizza 0,3 Wh di elettricità, l’Ia consuma 3 Wh per ogni interazione: «È come una lampadina in funzione 24 ore, ma bisogna moltiplicare per miliardi di attivazioni in tutto il mondo», precisa Davide Tabarelli, capo di Nomisma Energia. «Sul risparmio di energia si sta lavorando con pari impegno».

Veduta aerea di un impianto della Tsmc, il colosso taiwanese quasi monopolista nella produzione di microprocessori e semiconduttori

 

La sfida si intreccia con la complessa “de-globalizzazione” in corso. L’amministrazione Usa ha generosamente incentivato la Tsmc tramite il Chips and Science Act dell’agosto 2022, uno dei piani della nuova politica industriale Usa che prevede solo per il “comparto Ia” 29 miliardi di sussidi più 13 di investimenti in ricerca: alla fine ha ottenuto che la Tsmc avviasse uno stabilimento in America con un investimento di 40 miliardi di dollari (dei quali 10 sussidiati dagli Usa, più il 25% di sgravi fiscali). Alla posa della prima pietra, a fine dicembre in Arizona, c’era Joe Biden a fianco del fondatore del gruppo taiwanese Morris Chang, che è uno che parla chiaro: alla cerimonia ha detto che produrre chip in America costa il 55% in più e ha definito «quasi morti» la globalizzazione e il libero commercio.

Non che gli dispiaccia, perché la prima vittima è l’odiata Cina, che sta investendo 50 miliardi di dollari per produrre i chip più avanzati dato che è ormai isolata fra bandi, embarghi e dazi. La Huawei di Shenzhen, che Trump dichiarò off-limits nel 2019 accusandola di spionaggio e Biden non ha riabilitato, sta rincorrendo le vette tecnologiche nei chip: è arrivata a 7 nanometri negli smartphone usciti l’estate scorsa, mentre gli esperti americani si dicevano sicuri che non ce l’avrebbe mai fatta. Sembra che in segreto sia vicina alla vetta dei famosi 3 nanometri: così si spiega la pressione degli Stati Uniti nel diffidare i produttori perfino dei Paesi vicini a fornire aiuto tecnologico né vendere semilavorati a Huawei. «Qingdao Si’En, Shenzhen Pensun Technology, SwaySure, ChangXin Memory: la lista nera delle aziende cinesi sospettate di essere filiazioni dirette o fornitrici della Huawei, si allunga ogni giorno», dice Edison Lee, analista della banca d’affari Jeffries, non senza paura per la spirale viziosa in cui il mondo si è infilato.

L’ultimo 10% del mercato dei chip per l’Ia è detenuto dalla sudcoreana Samsung, anch’essa corteggiata dagli americani perché decentri negli States (dove già ha un impianto) produzioni avanzate: sta per dare il via a uno stabilimento hi-tech vicino ad Austin in Texas. Ma in questo Risiko vuole inserirsi il pezzo da 90, l’Intel. Il gruppo fondato da Andy Grovee Gordon Moore nel 1968 a Santa Clara, cuore della Silicon Valley, colosso da 54,2 miliardi di fatturato 2023 e 125 mila dipendenti, è da sempre sinonimo di chip: si è però concentrata sui computer di ogni ordine e grado trascurando le frontiere emergenti degli smartphone e poi dell’Ia. Il ceo Pat Gelsinger ha annunciato il nuovo corso: «La nostra strategia è di potenziare le fabbriche di chip e aprirle a clienti esterni per riequilibrare geograficamente la filiera. È finita l’epoca della catena dell’offerta a basso costo in cui l’Occidente si è concentrato sulle proprietà intellettuali lasciando la produzione in aree del mondo che offrivano costi minori». La rincorsa per recuperare terreno si concretizza in un piano da 100 miliardi in 5 anni per la costruzione o il potenziamento di quattro impianti in America, oltre a un investimento di 30 miliardi in Germania. Conta di raggiungere i mitici 2 nanometri quest’anno e di arrivare a 1,8 nel 2025.

La partita è così prestigiosa che tutti vogliono giocarla. I giapponesi vi vedono la via per rientrare in grande nell’hi-tech che dominavano negli anni ’80, dopodiché hanno perso terreno per mille motivi come la rigidità dei keiretsu, i conglomerati industriali a base familiare. Per uscire dall’impasse, il governo di Tokyo ha avviato la collaborazione con gli Usa con una serie di accordi incrociati che comprendono perfino il via libera al riarmo superando la costituzione dettata dagli alleati nel 1945, a quanto scrive il Financial Times che rimanda per ulteriori dettagli alla visita del premier Fumio Kishida alla Casa Bianca il 10 aprile. Le joint venture fra le case Usa e Sony, Toyota e altri confermano che diversamente dal passato gli investimenti diretti dall’estero sono i benvenuti. Il ritardo da colmare è pesante: la tecnologia è ferma ai chip da 40 nanometri. Ora la stessa Tsmc, come Samsung e le case Usa, a partire da Micron, stanno aprendo stabilimenti in Giappone. E le aziende nipponiche a loro volta investono negli Usa.

E l’Europa? «Potrebbe giocare un ruolo da protagonista se fosse più coesa, ma il sistema europeo nell’attuale struttura non può funzionare», dice Paolo Guerrieri, economista internazionale che uscirà il 5 aprile (per Laterza) con il saggio “L’Europa sovrana”, scritto con Pier Carlo Padoan. «I meccanismi di decisione dell’Unione sono complessi e pieni di lungaggini. Investimenti come quelli nell’hi-tech sono troppo impegnativi per essere assunti da un Paese solo (l’unico che può permetterselo è la Germania) ma per essere realizzati su scala europea hanno bisogno di capacità di implementare decisioni comuni». L’ennesima sfida che si gioca sulla frontiera tecnologica più avanzata.