Gli investimenti esteri restano esigui e il valore dei titoli bancari cresce per gli extraprofitti. Quanto sta accadendo negli Stati Uniti e nei Paesi europei è ben diverso dalla situazione nostrana

Nel mese di marzo 2024, la capitalizzazione delle Borse mondiali ha raggiunto la cifra di 118 mila miliardi di dollari, superando per la prima volta il valore dell’economia reale pari a 105 mila miliardi. La crescita è stata trainata dalla notevole espansione nell’ultimo biennio della Borsa di Wall Street (+37 per cento), che rappresenta il 70% del valore delle Borse mondiali.

 

Lo stesso effetto si è riversato sia sulla quotazione dell’Euro Stoxx 50, tornato ai livelli  del 2019, sia sul valore del nostro Ftse Mib, aumentato nello stesso periodo del 38 per cento. Ha così raggiunto la quota di 34 mila punti, la più elevata di sempre. Sussiste, tuttavia, una notevole differenza tra l’espansione della Borsa di New York e di quella dell’Euro Stoxx 50 rispetto a quella della Borsa italiana.

 

In America, infatti, l’espansione è da attribuire alla corsa dei titoli dell’intelligenza artificiale e al peso dell’aumento del valore delle Big Tech (Microsoft, Google, Nvidia) e in Europa all’introduzione delle nuove tecnologie collegate al Green Deal.

 

In Italia, invece, l’espansione non trova slancio nell’innovazione del sistema economico, ma, da un lato, in un “innaturale” aumento di valore dei titoli finanziari, che hanno usufruito di una forbice tra il costo del denaro del 4,5 per cento e quello dei depositi a risparmio allo 0,30 per cento, e, dall’altro, in alcuni exploit individuali di importanti imprese, tra cui Stellantis, Ferrari, Saipem e Leonardo, grazie alle spese militari.

 

L’euforia della Borsa americana – e, per certi versi, anche quella dei maggiori Paesi europei (Germania, Francia e Spagna) – si fonda sull’idea che l’economia mondiale non entrerà in recessione. In questi Paesi, infatti, si pensa che la drastica riduzione dell’inflazione unitamente al graduale taglio dei tassi di interesse delle banche centrali (da giugno sia per la Fed sia per la Bce) assicureranno una ripresa virtuosa  dell’economia reale, in connessione con gli investimenti pubblici e privati nella transizione green, nella digitalizzazione e nell’intelligenza artificiale.

 

Il nostro ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, sulla base dell’andamento favorevole dell’indice Ftse Mib di Milano, ha  sostenuto che «l’Italia è tornata a essere un investimento attrattivo per gli investimenti esteri. Lo dimostra la straordinaria crescita della Borsa». Un’affermazione rivolta soprattutto ad ammonire le Cassandre di turno (giornalisti di sinistra e opposizione) per lasciare intendere che il nostro Paese, grazie all’azione del governo, si sta  avviando verso nuovi traguardi e nuovi successi.

 

Il ministro, purtroppo, dimentica sia che gli investimenti esteri diretti in Italia, pur aumentati nell’ultimo biennio, sono solo il 4 per cento del totale (in Germania il 14 per cento, in Francia il 21 e nel Regno Unito il 16) sia che l’aumento “innaturale” del valore dei titoli bancari è dovuto agli extraprofitti, che niente hanno a che vedere con l’espansione dell’attività creditizia. I prestiti bancari a imprese e famiglie, infatti, sono in continua discesa. Va bene cavalcare l’onda, ma tutto ha un limite, dal momento che il futuro della nostra economia dipende soltanto dall’attuazione del Pnrr.