I padroni del mondo
L'Antitrust non ha nessuna arma contro gli oligarchi dell’hi-tech
I colossi del digitale capitalizzano migliaia di miliardi e sono i primi in Borsa. Ma il loro strapotere non è solo finanziario. Per questo le multe o le norme non riescono a limitarli
Le prime nove aziende dell’indice Standard and Poor’s 500, bussola della finanza americana, hanno una capitalizzazione totale di 14.760 miliardi di dollari, pari al 30,9% dell’intero indice (e al Pil di tutta l’Unione europea). Le restanti 491 società si dividono il 69,1%. Un dato che dice tutto sulla potenza di fuoco di questo nucleo di aziende: «Non è un caso che appartengano tutte al settore tecnologico», commenta Michael Spence, economista di Stanford e Premio Nobel nel 2001 per l’Economia. «È la conferma che l’hi-tech è talmente vivace, specialmente ora che ha ricevuto l’iniezione di fiducia e finanziamenti dell’intelligenza artificiale, che lì risiede la maggior speranza per i futuri aumenti della produttività e quindi della crescita mondiale».
I nomi delle nove Big Tech corrispondono ad altrettanti marchi familiari e agli uomini più ricchi del pianeta. In testa con 3.120 miliardi di market cap (giovedì prima di Pasqua) c’è la Microsoft fondata da Bill Gates e condotta dal 2014 dal manager indiano Satya Nadella, che per rinverdire le fortune iniziate nel lontano 1975, ha investito all’inizio dell’anno scorso 10,3 miliardi nell’OpenAI, creatrice di ChatGpt, l’intelligenza artificiale “generativa” che ha rivoluzionato il settore. Microsoft, per quanto possa sorprendere, aveva colto in ritardo le potenzialità di Internet negli anni ’90: stavolta ha giocato d’anticipo.
Al secondo posto troviamo la Apple creata nel 1976 da Steve Jobs e guidata dal 2011 (anno della morte di Jobs) da Tim Cook: capitalizza 2.600 miliardi dopo aver toccato i 3 trilioni (un trilione=mille miliardi) nel dicembre 2023 (prima nella storia ad arrivarci), per poi perdere qualcosa per grane antitrust soprattutto a Bruxelles dove è stata condannata in primo grado a 1,8 miliardi per irregolarità nello streaming e ora attende l’appello. Terza in classifica con 2.200 miliardi è Nvidia, la compagnia di San José fondata nel 1993 da Jensen Huang e diventata la numero uno dell’intelligenza artificiale di cui fornisce le piattaforme operative. In un solo giorno, il 22 febbraio 2024, la capitalizzazione è salita di 227 miliardi (record per Wall Street) e così ha sorpassato la Amazon di Jeff Bezos, lasciata al quarto posto con 2.100 miliardi. Al quinto posto nel Gotha con 1.800 miliardi di capitale è Alphabet, la finanziaria che controlla Google, guidata dall’altro indiano Sundar Pichai che nel 2015 ha preso le redini dai fondatori Larry Page e Sergey Brin. Con 1.600 miliardi ecco Meta, il raggruppamento di Mark Zuckerberg con Facebook, Instagram, Messenger e WhatsApp. Settimo è l’unico gruppo non tecnologico, la conglomerata Berkshire Hathaway della vecchia volpe Warren Buffett, che però ha la maggior parte delle partecipazioni (chissà perché) concentrate nell’hi-tech con cospicui e lucrosi pacchetti di tutte le società citate. Ottava in classifica con 750 miliardi di capitale è un’altra new entry, la Broadcom di Palo Alto (Silicon Valley), condotta dal malesiano (con Mba ad Harvard e PhD al Mit) Tan Hock Eng, specializzata neanche a dirlo nei microprocessori per l’Ia. Infine, al nono posto con 590 miliardi c’è la Tesla, parte dell’universo tecnologico di Elon Musk, genialoide leader della classifica dei miliardari con attività dal sistema satellitare Starlink ai social (Twitter-X), fino all’interfaccia cervello-computer impiantabile Neuralink per fortuna ancora sperimentale.
Sono gli oligarchi occidentali del XXI secolo, il blocco di potere non solo economico che governa le nostre vite in quella che Giovanni Maria Flick, padre nobile dei costituzionalisti italiani che sta scrivendo un saggio dall’emblematico titolo “La transizione culturale”, definisce «algocrazia»: «È la dittatura degli algoritmi, o meglio di chi li gestisce». Una tale concentrazione, spiega Flick, «è di per sé pericolosa. Ma in più, guardiamo al contenuto: sono società che vivono dei dati degli utenti, e chi più ne ha più è ricco, gestiti senza trasparenza. L’umanità è in balìa di questi giganti tecnologici. Ora che è arrivata l’intelligenza artificiale non potrà andare che peggio». Flick paragona a «una gigantesca biblioteca di Babele» il patrimonio di dati «privati, sensibili, carpiti spesso in modo subdolo. Sui quali gli interessati, cioè noi tutti, non hanno possibilità di intervento». L’Unione europea «ha proposto un regolamento per prima sull’Ia, sulle conseguenze e i rischi del suo utilizzo in coerenza alla sua ricerca di equilibrio tra diritti e interessi: ma resta ai margini perché i protagonisti americani e cinesi si scontrano solo sui profitti».
C’è un altro metodo «di lotta e di governo»: sia il dipartimento di Giustizia sia le autorità antitrust europea e nazionali appioppano da anni severe multe ai Big Tech per abuso di posizione dominante, pratiche concorrenziali illegali, killer acquisition che non sai mai se sono fatte per togliere di mezzo un concorrente o per una crescita intrinseca (800 nell’hi-tech negli ultimi dieci anni), e così via. Ma sono provvedimenti che non “mordono”. «In America c’è memoria dei tempi in cui At&t o prima ancora la Standard Oil dei Rockefeller furono costrette a dolorosi “spezzatini”, ma sono processi lunghissimi e dall’esito incerto», commenta Alberto Pera, già segretario generale del Garante della Concorrenza e poi fondatore della divisione antitrust dello studio Gianni Origoni. «Il contesto del settore è molto dinamico e i cosiddetti gatekeeper, i gruppi più potenti, già si fanno concorrenza su diversi ambiti. E poi c’è sempre il pericolo che l’intervento pregiudichi l’innovazione». L’approccio europeo di regolazione «pro-concorrenza», spiega Pera, è più efficace: «Sono state introdotte norme per regolare il settore digitale, per l’uso dei dati negli algoritmi dell’Ia, per limitare il potere di mercato delle piattaforme e facilitare l’accesso ai servizi per i nuovi operatori».
Lontani sono i tempi in cui Mario Monti, commissario europeo alla Concorrenza, inflisse nel 2004 una multa a Microsoft di 497 milioni di euro per mancata apertura a browser concorrenti. Dopo di allora, è stato un profluvio di sanzioni su entrambi i lati dell’Oceano, ma i fatturati dei gruppi sono diventati tali da renderle marginali. Il sito svizzero proton.me, creato dagli scienziati del Cern, calcola in quanto tempo le Big Tech hanno guadagnato nel 2023 quel che serviva per le multe. Google (fatturato 307,4 miliardi) ha pagato 941 milioni: è stato sufficiente un giorno e tre ore per rientrare. Apple ha fatto prima: per recuperare 186,4 milioni, ha lavorato per 4 ore e 15 minuti. Peggio per Facebook: multe di 1,72 miliardi le sono costate 5 giorni e mezzo. Microsoft per recuperare 84 milioni ha lavorato 3 ore e 30. Ad Amazon il primato della brevità: 111,7 milioni di multe e in un’ora e 50 è passata la paura. Quando poi le multe arrivano da singoli Paesi si sfiora il ridicolo: Apple ha pagato 8 milioni alla Francia lavorando 11 minuti per rifarseli. Senza contare che il più delle volte le aziende non pagano proprio. Il sito elenca i tanti appelli in corso: Google sta dando battaglia per multe (fra Usa e Ue) per 8 miliardi risalenti anche al 2017. Infine i dati che spiegano tutto: ad Amazon per fatturare un miliardo bastano 16 ore, ad Apple 22 ore e 50 minuti, a Google 1 giorno, 5 ore e 35 minuti. Quanto ai ceo, non perdono mai il posto, anzi questo fatto delle multe è visto come funzionale all’aggressività del business. Quando si dice potere economico, si intende esattamente questo.