Chi governerà l’Ue dopo le elezioni di giugno dovrà risolvere alcuni guai che limitano la competitività del Continente. In un mondo globalizzato servono soluzioni che oltrepassino i confini nazionali

Nel 1967 venne pubblicato uno dei libri più citati sul futuro dell’Europa: “Le Défi Américain” di Jean-Jacques Servan-Schreiber. In esso l’autore lanciava un grido d’allarme: l’Europa stava perdendo la battaglia economica con gli Stati Uniti d’America e le cose sarebbero peggiorate senza una virata del nostro Continente verso la creazione di un’Europa più federale. Servan-Schreiber non parlava ancora di mercato unico europeo, ma è chiaro che la sua creazione anni dopo, grazie all’impulso della Commissione Delors, rispondeva anche a quel grido d’allarme.

 

Oggi le parole di Servan-Schreiber tornano alla memoria dopo avere letto il rapporto che Enrico Letta ha presentato al Consiglio europeo il 18 aprile scorso. Di questo rapporto, una frase su tutte riassume le difficoltà che l’Europa ha avuto nel tenere il passo degli Stati Uniti negli ultimi decenni: «Mentre il Pil pro capite negli Stati Uniti è aumentato di quasi il 60% dal 1993 al 2022, in Europa l’aumento è stato di meno del 30%». Certo, non è tutto oro quello che luccica. Oltre Atlantico il reddito mediano (quello del 50% meno abbiente della popolazione) è cresciuto molto meno di quello medio, per lo spostamento della distribuzione del reddito verso la fascia più ricca della popolazione. Ma resta il fatto che l’Europa ha perso rilevanza economica non solo rispetto ai Paesi emergenti, ma anche ai cugini americani.

 

Che fare? A Enrico Letta era stato chiesto di considerare come il Mercato unico europeo dovesse essere riformato per rispondere alle sfide di un mondo globalizzato. Ne escono preziose prescrizioni per chi, dopo le elezioni, dovrà governare le istituzioni europee. Impossibile riassumerle in modo adeguato in poche righe. Mi limito quindi a quattro punti che condivido particolarmente.

 

Primo, c’è un sorprendente sottodimensionamento delle imprese europee rispetto a quelle americane e cinesi, in parte alimentato dall’eccessiva preoccupazione di tutelare la concorrenza nel nostro Continente, anche ostacolando fusioni necessarie per raggiungere dimensioni adeguate a livello globale.

 

Secondo, fin dall’inizio il Mercato unico escluse dal processo d’integrazione i settori dell’energia, della finanza e delle comunicazioni, cosa che è diventata ormai insostenibile alla luce di quello che accade nel resto del mondo.

 

Terzo, il tentativo di sviluppare un vero mercato unico dei capitali è per ora fallito e questo fallimento rende più difficile finanziare le tre priorità politiche che l’Europa si è data: la transizione verde e digitale, l’allargamento dell’Unione a nuovi Paesi (cosa che però a me sembra possibile solo se ci fosse un cambiamento delle attuali regole di governance) e il rafforzamento dei nostri strumenti di difesa.

 

Quarto, l’eccessiva regolamentazione (europea, nazionale, sub-nazionale) cui le nostre imprese sono sottoposte ne scoraggia gli investimenti. Fra l’altro, nella trasposizione delle direttive europee spesso i Paesi membri introducono ulteriori vincoli normativi, cosa che non avverrebbe se la legislazione europea utilizzasse più frequentemente i regolamenti auto-applicativi.

 

Risolvere questi problemi richiede strategie e strumenti definiti a livello europeo. Inutile sperare che la soluzione possa trovarsi nella dimensione nazionale. In un mondo globalizzato servono soluzioni europee. Questo sarà un tema fondamentale per le elezioni del prossimo 9 giugno.