Dati e futuro
Negli ultimi 30 anni i salari sono aumentati in tutta Europa. Tranne in Italia
Le retribuzioni ridotte al minimo sono lo specchio del nostro Paese, che non sa affrontare le diseguaglianze. Ed è incapace d’investire su donne, giovani e regioni del Sud
Sono i salari ridotti al minimo il vero campanello d’allarme della crisi più profonda che affligge il nostro Paese: quelle retribuzioni che restano livellate, senza mai aumentare, sono la prova di un’anomalia esclusivamente italiana, generata dall’incapacità di costruire il futuro. Il confronto con il resto dell’Europa è lapidario: i dati evidenziano come tra il 1991 e il 2022, a parità di potere d’acquisto, lo stipendio medio annuale in Germania e Francia sia aumentato di oltre 13 mila euro; in Spagna l’incremento è stato di circa 1.500 euro, mentre in Italia c’è stata una diminuzione di 488 euro. Le analisi di WOSM© – il sistema sviluppato da Vidierre che permette di individuare comportamenti e tendenze partendo da un monitoraggio di 25 milioni di fonti nazionali e internazionali come Web, social e media – aiutano a comprendere cosa c’è dietro quelle buste paga al ribasso.
Anzitutto, sono lo specchio di un Paese che non riesce ad affrontare le diseguaglianze: i salari sono schiacciati dall’incapacità di investire sui giovani, sulle donne, sulle regioni del Sud. Partiamo dalla questione meridionale: altre nazioni hanno affrontato la disomogeneità territoriale nello sviluppo, evitando che ci fossero territori in qualche maniera lasciati indietro. Pensate soltanto a quanto è stato fatto nella ex Ddr dopo l’unificazione tedesca o a quello che è avvenuto in diverse aree di Polonia e Romania, che adesso vedono rientrare le persone partite verso l’Europa occidentale all’inizio del Millennio. Dal 1861 l’Italia resta a due velocità e da un quarto di secolo il divario si è allargato: non ci sono prospettive soprattutto per i giovani, che si muovono verso il Settentrione o verso l’estero. Il danno è doppio perché ad andare via spesso sono i più preparati o i più determinati, che preferiscono mettersi in gioco piuttosto che vivacchiare nella dimensione familistica o, ancora peggio, in quella assistenzialista: è come se lasciando emigrare i ragazzi più motivati si rinunciasse al futuro. Una colossale eutanasia, sociale, ma anche economica. Le potenzialità del nostro Sud sono gigantesche e non solo nel turismo, frenato dalla carenza di infrastrutture e servizi: ci sono poli di ricerca tecnologica in Puglia come in Campania che indicano una strada luminosa per valorizzare la ricchezza di idee, di creatività e di professionalità. Continuano però a venire soffocate da una miopia politica, imprenditoriale e amministrativa: tutto deve fare i conti con una burocrazia opprimente, lenta, autoreferenziale, che rappresenta una zavorra per ogni tentativo di trasformare.
Purtroppo è amaro constatare che neppure il Nord riesce a puntare sulle nuove generazioni, sempre più attratte dalle opportunità offerte dal resto d’Europa: un richiamo collettivo, perché tutti sono consapevoli di ottenere trattamenti economici migliori. Siamo davanti a una vera e propria questione generazionale, caratterizzata da una sfiducia generalizzata verso i giovani.
Inoltre, tutta la Penisola è allineata nel non riconoscere una concreta parità di genere, che si materializza proprio nelle differenze retributive e nella mancata valorizzazione delle donne: non ci sono le stesse opportunità di carriera, come se si accettasse consapevolmente di dimezzare le risorse umane.
Quando bisogna programmare lo sviluppo si segue una regola basilare: massimizzare ciò che c’è di positivo e minimizzare invece quello che rappresenta negatività. Non si può perdere altro tempo: c’è necessità di un radicale cambiamento di mentalità che guardi all’innovazione come unico modello vincente. Occorre spingere a osare, anche a costo di fallire: ricominciare a pensare in grande e investire su quei semi che possono germogliare con più vigore.