Il governo esulta per i dati dell’Istat. I sindacati criticano, citando quelli Inps. La verità è che l’occupazione cresce, ma possiamo e dobbiamo fare molto meglio

In costante aumento. Con risultati che macinano record su record. Non c’è che dire: le “olimpiadi” del mercato del lavoro italiano nel 2024 stanno andando alla grande. Il grafico sul totale delle persone occupate che appare nella pagina home dell’Istituto Nazionale di Statistica Italiano (Istat) è inequivoco: a partire da metà  2021 la linea  sale sempre più su, a marzo 2022 sfonda il 60%, e poi conquista record su record  fino ad arrivare al 62,2% a un soffio dai 24 milioni di occupati (23 milioni e 949.000 a giugno 2024, ultima rilevazione). Tanti e “buoni”, è il commento più diffuso. Il trend mostra soprattutto una progressione dei contratti a tempo indeterminato. Quel “posto fisso” inseguito da sempre da chi entra nel mercato del lavoro, che “fisso” ormai non è lo è più per definizione dopo il jobs act di renziana memoria, ma che comunque ha prospettive stabili e consente di programmarsi una vita. Gli ultimissimi dati Istat diffusi il primo agosto e relativi a giugno 2024 confermano la tendenza in crescita: 25.000 nuovi posti rispetto al mese precedente, +337.000 rispetto a giugno 2023. E ancora una volta sono i dipendenti permanenti a far segnare un significativo passo avanti (+ 465.000 su base annua) mentre i contratti precari arretrano (- 249.000 unità). 

 

Il governo ovviamente esulta. Tutto bene quindi? Non proprio, a detta dei sindacati. Che alle stime Istat (basate su un campione di 250 mila famiglie residenti in circa 1.400 comuni italiani, per un totale di circa 600 mila individui intervistati) rispondono con i dati reali, basati sui contratti di assunzione effettivamente registrati dalle imprese e inviati a Inps e Ministero del Lavoro. La Uil, guidata da Pierpaolo Bombardieri, ha elaborato quelli relativi al primo trimestre 2024 e ha lanciato l’allarme: il 75,7% dei nuovi contratti attivati è a termine, precario, in molti casi di durata inferiore a un mese, a volte soltanto di pochi giorni. I contratti a tempo indeterminato sono calati del 5%, quelli di apprendistato dell’11%. Altro che “lavoro buono”, denuncia Bombardieri. Il fatto è che per lo stesso periodo l’Istat invece fornisce rilevazioni con esito totalmente opposto: a fronte di un aumento complessivo dell’occupazione dell’1,7% nel primo trimestre 2024, i dipendenti a tempo indeterminato sono aumentati del 3,1% e  gli indipendenti dell’1%, i dipendenti a termine invece sono diminuiti del -4,6%.

 

Qualcuno, quindi, mente? Magari per tirare la volata all’opposizione, o al contrario per “simpatie” governative? Per i non addetti ai lavori un po’ di confusione è lecita. E allora, forse è necessario una sorta di “libretto di istruzioni” per la corretta lettura e interpretazione di questi dati. Che - diciamolo subito per sgombrare il campo da fraintendimenti -  sono tutti “veri”. Semplicemente si tratta di rilevazioni effettuate con metodi differenti. Le stime Istat si riferiscono alle “teste” (ovvero il numero di lavoratori) e guardano lo stock degli occupati in un dato momento, le banche dati dell’Inps e del Ministero del Lavoro sono dati reali ma si riferiscono al flusso, inteso come contratti attivati (uno stesso lavoratore può avere più contratti contemporaneamente o anche uno di seguito all’altro). Più il contratto è breve, più è ipoteticamente soggetto nell’arco dell’anno a rinnovi. A questo punto la domanda è: quale di queste metodologie (stime e stock, oppure dati reali e flusso) è più significativa per valutare l’andamento del mercato del lavoro?

 

Andrea Garnero, economista dell’Ocse tra i massimi esperti di questo argomento e tra i curatori dell’ultimo rapporto dell’organizzazione sulle prospettive occupazionali dell’Italia, tanto per cominciare precisa: «L’incoerenza tra i due dati è solo apparente, e si ricompone se si guarda il “flusso netto”, ovvero attivazioni meno cessazioni». Poi aggiunge: «Che gli occupati siano in aumento è un dato di fatto: anche in modo sorprendente direi, qualche anno fa nessuno ci avrebbe scommesso. Che si tratti di occupazione “buona”, con un incremento dei rapporti di lavoro stabili, è un altro dato di fatto. Negarlo è come volersi fare del male da soli» . 

 

Alcuni criteri di rilevazione utilizzati dall’Istat, comunque, qualche perplessità la fanno sorgere. Primo fra tutti: il criterio dell’ora. Ovvero è sufficiente che l’intervistato dichiari di aver lavorato almeno un’ora regolarmente retribuita nella settimana di rilevazione che si è considerati occupati. Anche qui urge una precisazione: questo stesso criterio è adottato anche da Eurostat, l’istituto di statistica europeo, e rientra sin dagli anni Ottanta nelle linee guida fissate dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), agenzia che fa parte delle Nazioni Unite.

 

Peccato che una sola ora a settimana, ma anche qualcuna di più, non è sufficiente a sopravvivere senza andare a chiedere l’elemosina (anche di Stato). E quindi che senso ha considerare “statisticamente” quelle persone tra gli occupati?

 

La replica dei fan del “criterio dell’ora” potrebbe sembrare ineccepibile: è una polemica pretestuosa, perché nell’elaborazione dei dati l’Istat fornisce anche quello sulle tipologie contrattuali, dal quale si evince che la maggior parte dei nuovi occupati ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato full time. Cosa che taglia la testa al toro delle critiche di “un’ora sola ti vorrei”.

 

A noi sembra che correggere questo criterio sarebbe un omaggio al buon senso, eviterebbe polemiche inutili, aiuterebbe a concentrarsi sui problemi veri del nostro mercato del lavoro. Che - nonostante gli indubbi progressi - restano scogli piuttosto impegnativi da superare. Restiamo, ad esempio, agli ultimi posti nelle classifiche Ocse sia per tasso di occupazione (8 punti sotto la media che è al 70,2%) che disoccupazione (noi al 7%, contro una media Ocse del 4,9% ). I giovani e le donne restano gli anelli più deboli e fragili in questo mercato del lavoro imperfetto. E poi c’è la grande questione del livello delle retribuzioni e del potere d’acquisto. Siamo il Paese che ha registrato il maggior calo dei salari reali tra le maggiori economie dell’Ocse. «Nel primo trimestre del 2024 i salari reali erano ancora inferiori del 6,9% rispetto a prima della pandemia», sottolinea l’organizzazione parigina.

 

Su questo è difficile dare torto ai sindacati che mettono in guardia: il “posto stabile” non è automaticamente associato a retribuzione buona. Anzi - questo l’allarme - “attenzione, attenzione: ad aumentare è il lavoro povero”, quello con salari così bassi che non ti consentono di arrivare dignitosamente a fine mese. La ricetta del salario minimo legale, proposta dall’opposizione, resta quantomeno opinabile. L’abolizione del reddito di cittadinanza, secondo alcuni (lo sostiene anche la stessa Ocse nel suo ultimo rapporto), avrebbe dovuto essere «più graduale».

 

Tirando le fila e sintetizzando al massimo, si potrebbe concludere così: stiamo migliorando, ma il momento di lasciarci andare a commenti entusiastici non è ancora arrivato, possiamo e dobbiamo fare molto meglio.