IL RAPPORTO
La terapia Draghi per salvare l’Europa malata
Investire 800 miliardi l’anno. Fare debito comune. Basta unanimità. Ma la ricetta dell’ex premier per evitare il declino dell’Ue è destinata a scontrarsi con le resistenze degli Stati
Lo ha confessato senza remore, da un po’ di tempo a questa parte ha un incubo terrificante: la morte dell’Europa come potenza economica, «schiacciata» tra i due colossi Stati Uniti e Cina. E purtroppo i segnali di questa «lenta agonia» ci sono tutti: bassa crescita, andamento demografico in declino, enormi ritardi nell’innovazione e nella digitalizzazione, salari che non crescono e riducono il potere d’acquisto, normative incoerenti e restrittive che inducono molti imprenditori a fuggire negli Usa, processo decisionale dell’Ue datato, lento e in ostaggio del diritto di veto. «Siamo già in modalità di crisi perenne». Una crisi esistenziale. Non irreversibile, però. Purché tutti siano consapevoli che il cambiamento deve essere «radicale». Dopo avere salvato l’Euro da presidente della Bce con l’ormai stranoto «whatever it takes», Mario Draghi – che al momento non ha incarichi ufficiali se non quello di “grande consigliere” – prova ora a suggerire come salvare l’Europa indicando una serie di azioni urgenti nel report sulla competitività che gli ha commissionato Ursula von der Leyen. Un piano così ambizioso e impegnativo che non è escluso che rimanga nei cassetti della presidente della Commissione europea o che incappi nel potere di veto di più di uno Stato membro, prima ancora che si discuta della possibilità – così come raccomandato dallo stesso Draghi – che i processi decisionali siano riformati con l’introduzione della maggioranza qualificata.
Il piano di Draghi per salvare l'Europa
Il rapporto è corposo, composto da una prima parte di 65 pagine, che si potrebbe definire di sintesi, e da una più dettagliata di circa 300 pagine. Con ben 170 proposte di azione. Il «malato Europa» non è ancora a livello dell’incurabilità, ma la terapia – avverte Draghi – dovrà essere urgente e «massiccia». Per metterla in atto ci vogliono tanti soldi, tantissimi. Molti più di quelli erogati nel dopoguerra con il piano Marshall che all’epoca fornì per ogni anno di vigenza (dal 1948 al 1951) investimenti aggiuntivi pari a circa l’1-2% del Pil. Stavolta per sgombrare il campo dalle macerie dovute ai ritardi accumulati dall’Europa nell’ambito dell’innovazione, della digitalizzazione, della decarbonizzazione, della frammentazione delle politiche industriali e nella Difesa dei vari membri dell’Unione, servono investimenti aggiuntivi pari ogni anno al 5% del Pil dell’Ue. Si tratta di così tanti soldi, almeno 800 miliardi di euro all’anno, che anche se i vari Paesi membri volessero fare più di uno sforzo eccezionale non riuscirebbero comunque a recuperarli. Solamente per rafforzare la catena di approvvigionamento nelle materie prime critiche e nei semiconduttori, indispensabili per l’auto elettrica e per i prodotti a tecnologia avanzata, serviranno investimenti di centinaia di miliardi di euro. E, con tutti rivolgimenti geopolitici in atto, non è possibile pensare di rinviare. L’abbiamo visto con l’energia e i timori concreti di passare un inverno al gelo dopo l’interruzione dei rifornimenti di gas dalla Russia in guerra contro l’Ucraina. Per le materie prime critiche siamo già a rischio, visto che ben il 40% dei rifornimenti Ue arriva da un numero ristretto di produttori fuori dal controllo dei Paesi europei. Anche i pannelli solari, ad esempio, arrivano quasi tutti (il 95%) da produttori extra Ue.
Le carenze nella difesa e politica estera comune
Ma le ambizioni di Vladimir Putin hanno di fatto scoperchiato anche un altro vulnus dell’Europa, la mancanza di una difesa comune europea, di una politica estera e di un’industria della sicurezza non frammentata tra i vari Stati membri. Anche in questo settore, soltanto per ricostituire le scorte in parte svuotate per il sostegno all’Ucraina e «decenni di investimenti insufficienti», nei prossimi dieci anni serviranno circa 500 miliardi di euro. Cifra simile, ma nell’arco dei prossimi quindici anni, servirà per la decarbonizzazione. Ecco quindi che integrare i mercati dei capitali europei «sarà essenziale». Due le traiettorie su cui muoversi: emissione di nuovi titoli pubblici comuni, apporto dei privati. Il ricorso regolare a debito comune – proposta che nel report è definita con il nome di «common safe asset» – per finanziare progetti europei nelle reti, nelle infrastrutture, nella difesa, nell’innovazione, nella decarbonizzazione, per Draghi è uno «strumento necessario».
Il ruolo del debito comune e delle riforme
Non si tratta della messa in comune del debito esistente (lo stock di debito nazionale accumulato resta in testa ai singoli Stati) ma piuttosto qualcosa di simile a quanto già sperimentato con il fondo salva-Stati e poi ancor di più con il Recovery Fund (da noi Pnrr) varato per fronteggiare la crisi economica conseguente alla pandemia da Covid e che ha già portato l’Ue ad accollarsi un debito che sfiora i 500 miliardi di euro. Cosa che i cosiddetti Paesi frugali (a partire dall’Austria) non hanno mai digerito bene. Draghi sa che non sarà facile far passare la nuova proposta (tra l’altro già avanzata senza avere raccolto grandi entusiasmi): «Se si trovano altre strade che è più facile perseguire per ragioni politiche seguiamole», esorta durante la conferenza stampa di presentazione del report con accanto una von der Leyen che non si sbilancia e che rinvia il tutto alla «volontà politica degli Stati membri». Di certo per l’Italia – zavorrata da un debito pubblico mostra che solo per il pagamento degli alti interessi annuali drena più risorse di quelle impiegate in settori importantissimi come l’istruzione e la formazione – il «common safe asset» sarebbe una manna, perché alleggerirebbe i conti nazionali da spese importanti e aprirebbe spazi per altre misure. Anche se l’ex presidente della Bce sottolinea che l’emissione di asset comuni su base più sistematica, non significherebbe minori attenzioni sulla sostenibilità del debito nazionale. Anzi, lo strumento dovrebbe essere affiancato da regole di bilancio ancora più restrittive (cosa che non piace al governo italiano).
Produttività e innovazione
Per recuperare risorse pubbliche «sarà fondamentale» anche l’aumento della produttività, che fa bene non solo alle singole aziende, ma anche alle tasche dei lavoratori e alle casse pubbliche con l’incremento delle entrate fiscali. Spiega Draghi: «Un aumento del 2% del livello di produttività totale dei fattori entro dieci anni potrebbe già essere sufficiente a coprire fino a un terzo della spesa fiscale richiesta». La sfida è enorme, visti i ritardi accumulati soprattutto nei settori ad alta tecnologia digitale dominati dai colossi americani. «L’informatica quantistica – segnala il report – è pronta a diventare la prossima grande innovazione, ma cinque delle prime dieci aziende tecnologiche a livello globale in termini di investimenti quantistici hanno sede negli Stati Uniti e quattro in Cina. Nessuna di esse ha sede nell’Ue». Ancora: «Solo quattro delle 50 principali aziende tecnologiche del mondo sono europee». Ma non tutto è perduto. «L’Europa ha ancora l’opportunità di capitalizzare le future ondate di innovazione digitale», legate allo sviluppo dei servizi di intelligenza artificiale (dove già attualmente detiene il 17% della produzione mondiale) e della robotica autonoma (22% di quota mondiale). Senza contare il settore dell’aerospazio dove, nonostante investimenti inferiori al competitor statunitense, resta leader. Attenzione, però. In questo percorso l’Europa non deve ripetere gli errori degli Usa, dove il passaggio alle nuove tecnologie e l’accelerazione sull’innovazione ha comportato una sorta di «macelleria sociale». Draghi ovviamente non utilizza queste parole. Non è il suo stile. Lui si esprime con i numeri, che solo apparentemente sono freddi. E ricorda: «Dal 1980 al 2016 l’automazione ha rappresentato il 50-70% dell’aumento della disuguaglianza salariale negli Stati Uniti tra i lavoratori più e meno istruiti». L’Europa invece non deve sacrificare i suoi principi di prosperità, equità, solidarietà, sull’altare della competitività. La strada europea non può e non deve passare per il taglio dei salari, ma deve puntare sull’hi-tech e la formazione dei lavoratori.
Ostacolo alla crescita
La carenza di competenze, o quantomeno la ridotta offerta, è uno degli ostacoli alla crescita dell’economia europea. Non che i talenti non ci siano. Ma alcuni fuggono all’estero, dove sono meglio retribuiti. E quelli che rimangono sono pochi rispetto alle esigenze delle aziende. L’Ue produce circa 850 laureati Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) per milione di abitanti all’anno, rispetto agli oltre 1.100 degli Stati Uniti. La carenza di competenze è un ostacolo anche per il processo di decarbonizzazione. I tassi di posti di lavoro vacanti per l’industria manifatturiera di tecnologie pulite nell’Ue sono raddoppiati tra il 2019 e il 2023. Nell’ambito dell’attuale bilancio dell’Ue, circa 64 miliardi di euro sono spesi per investimenti nelle competenze, ma i risultati sono stati un fallimento. A questo proposito il rapporto raccomanda una serie di misure, da un migliore utilizzo delle analisi dei dati sulle competenze a sistemi di istruzione e formazione «più reattivi alle mutevoli esigenze» con programmi di studio rivisti, fino all’introduzione di un sistema comune di certificazione delle competenze acquisite.