Tennis
L’Italia è d’oro e non per caso
Nonostante i record di circoli e tesserati, il nostro Paeseha avuto per anni risultati deludenti in questo sport. Poi ha fatto sistema e trovato un modello per vincere. Fino al fenomeno Sinner
In principio, eravamo gatti neri. Ci approcciavamo al mondo come se cospirasse contro di noi e non ci desse quello che ci spettava. E va da sé che quando l’approccio è questo, poi subentra l’ineluttabile legge di Murphy. Se qualcosa può andare male, sicuramente ci andrà. Il tennis italiano era così. Grandi numeri, tantissimi circoli, una marea di praticanti e tesserati, ma per i risultati, beh…ripassare. E serve partire proprio da lì per capire come si è arrivati a Jannik Sinner, Jasmine Paolini, Matteo Berrettini, alla Coppa Davis e all’opposto di quanto storicamente capitava: qualsiasi cosa tocca il nostro tennis, diventa oro. E per comprendere occorre partire da una lunghissima traversata nel deserto durata quaranta, terribili anni.
Dalla conquista della Coppa Davis a metà anni Settanta a qualche anno fa, l’Italtennis era un piccolo gigante dormiente con un circolo tennistico in ogni paese, una moltitudine di insegnanti e giocatori che non riusciva a tradurre in risultati di alto livello. E per la legge del contrappasso, ammiravamo spagnoli e francesi mietere successi: una dannazione. Persino la Svizzera, con numeri modestissimi rispetto ai nostri, si godeva numeri uno come Martina Hingis e Roger Federer. E quando anche Cipro produsse un giocatore tra i primi dieci, la rassegnazione toccò livelli stellari. In un clima di sfiducia e morale basso, si è favoleggiato per decenni di sistemi da imitare: i mitologici modelli francese e spagnolo. In soldoni, ci si chiedeva: perché loro ce la fanno e noi no? Si era pensato di imitare chi generava ricette migliori della nostra e di per sé sarebbe stata cosa intelligente. La verità, però, è che un sistema per funzionare deve necessariamente essere impiantato nelle peculiarità e nella carne viva di un Paese. Non puoi imitare la centralizzazione della Francia che genera palate di soldi col Roland-Garros: quello è il loro modo.
E l’Italia che vediamo ora nasce con un modello tutto suo, senza una stella cometa o un big bang. Nasce con una piccola e silenziosa sequenza di scelte azzeccate, correggendo storture storiche che impedivano ai nostri giocatori di emergere. Nel corso dei decenni si era sempre sostenuto solo chi otteneva risultati migliori nelle categorie giovanili, abbandonando gli altri al loro destino. Come se ottenere risultati giocando tra i coetanei fosse garanzia di successo tra i grandi… Visione miope perché il talento precoce è solo una piccola sfaccettatura delle infinite possibilità di espressione del talento stesso. Un esempio: Paolini, sbocciata definitivamente a ventotto anni e capace di vincere in pochi mesi un torneo Masters 1000 a Dubai, oro olimpico e Internazionali di Roma in doppio e di raggiungere due finali slam a Parigi e a Wimbledon. Che ne sarebbe stato di lei negli anni Novanta e Duemila? Facile, sarebbe divenuta una ex tennista da diversi anni. Ma ora no, da un po’ si è capito che nove volte su dieci un talento va aspettato ed è necessario trovare la chiave giusta. Altro esempio: Berrettini, che in finale sui prati verdi di Wimbledon ci è arrivato a venticinque anni, mica a diciotto.
In primis, però, una rivoluzione di questo tipo parte investendo sulle conoscenze. Gli stessi insegnanti di tennis oggigiorno sono decisamente più preparati che in passato. Si sono spesi soldi (e tempo) per formare maestri che hanno più conoscenze di base e sviluppano il talento senza fare i danni che può generare un apprendista stregone. C’è poi un altro aspetto in rottura totale col nostro essere italiani. In una delle nazioni più litigiose e campanilistiche del globo, si è trovato il modo di fare sistema. Ogni giocatore di buon livello è seguito nei vari tornei da personale federale, nessuno è lasciato solo. Al vertice ci sono i nostri capitani di Coppa Davis e Billie Jean King Cup, Filippo Volandri e Tathiana Garbin. E certo, ogni giocatore ha il suo allenatore e il suo staff. Ma accanto a loro lavorano sinergicamente preparatori, fisioterapisti, per non parlare dello storico allenatore federale Umberto Rianna, una specie di Mr. Wolf della racchetta. Se c’è un problema, lui lo decritta e lo risolve. Si è creato un gruppo allargato in cui gelosie e rivalità sono silenziate in nome di un interesse superiore, permettendo una circolazione delle conoscenze che è dettaglio non secondario in ogni campo della vita.
A quel punto, poi, ci godiamo Paolini, Sara Errani, Martina Trevisan e una solida presenza di ragazze nelle prime cento del mondo, laddove pensavamo che dopo Flavia Pennetta, Roberta Vinci e Francesca Schiavone avremmo dovuto aspettare decenni. E ci godiamo i vari Berrettini, Lorenzo Musetti, Lorenzo Sonego assieme a una pletora di under 23 (Flavio Cobolli, Matteo Arnaldi e tanti altri), tutti giovanissimi e già nei primi trenta del mondo. Una densità di talento pazzesca e che nessun altro ha allo stato attuale nello sport individuale più competitivo del pianeta. E alla fine, alfa e omega, c’è il messia: Sinner. Colui che potrebbe diventare il nostro sportivo più grande e non parliamo mica solo di tennis. Se un talento così cristallino non si può costruire, se il microchip della sua testa non è plasmabile in laboratorio, c’è un sistema che lo ha accompagnato a diventare numero uno del mondo. Un allenatore come Riccardo Piatti, primo mentore di Jannik ma anche di Novak Djokovic, è italiano. L’attuale coach, Simone Vagnozzi, idem. Attorno al fenomeno c’è un sistema che non è un fenomeno, men che meno casuale. Per una volta è bellissimo essere italiani, godiamocela.