Economia
23 dicembre, 2025Articoli correlati
La necessità di esternalizzare gli infermieri viene da una posizione di grande esposizione debitoria che impone una fortissima razinalizzazione. Ma disinvestire sul personale, per l'intero gruppo San Donato, rischia di essere un boomerang
Gli infermieri sono come i Panda. In via di estinzione. E sono anche merce pregiata, da maneggiare con cautela, perché preziosissimi nel funzionamento di qualsiasi ospedale o casa di cura.
È il primo insegnamento da trarre dalla vicenda San Raffaele dove, tra l'8 e il 9 dicembre, è scoppiato il caos con errori nella somministrazione di terapie (farmaci errati, dosi decuplicate) nel reparto Iceberg, il più avanzato e fiore all'occhiello del prestigioso nosocomio privato milanese, che fa capo al Gruppo San Donato, di proprietà della famiglia Rotelli e presieduto da Angelino Alfano, mentre il potente lobbista tunisino Kamel Ghribi ne è vicepresidente.
La Procura di Milano ha avviato un’indagine a partire dalla relazione dei Nas per capire cosa sia successo esattamente nel reparto Iceberg. Ciò che è noto al momento è che al San Raffaele, di infermieri se ne sono andati 150 in meno di un anno, su un totale di 1.350 professionisti, a causa di stipendi bassi, eccesso di sfruttamento, turni intensi e, lamentano gli interessati, scarsa disponibilità da parte dell'azienda ad andare incontro alle richieste di recuperi, ferie e permessi. Così 16 infermieri dell'Iceberg hanno voltato le spalle all'azienda che, in fretta e furia, ha reclutato una cooperativa, la Auxilium Care, la quale ha mandato personale non addestrato a gestire il reparto. Non si è verificata una tragedia solo grazie al tempestivo intervento del personale medico.
E questo è il secondo insegnamento che viene da questa storia: perché, a causa della irrazionale programmazione alla formazione di nuovi medici e personale sanitario, voluta dalla ministra Anna Maria Bernini, questa cosa – ovvero che i medici si fanno carico di attività oggi in capo agli infermieri – diventerà prassi.
Non è un'opinione, è matematica: «La programmazione dei posti a medicina e infermieristica è totalmente sbagliata. Quest'anno addirittura abbiamo alzato i posti a medicina da 21 a 24mila, mentre vanno in pensione 8mila medici l'anno. L'organico complessivo è di 110mila unità, a breve avremo 60 mila nuovi medici formati. Abbiamo una tragedia annunciata dal 2030 in poi, quando avremo 12 mila nuovi medici l’anno a spasso, a fronte dell'assenza del 33 per cento di infermieri. In pratica sostituiremo gli infermieri con i medici, riducendone anche il salario a causa dell'elevata offerta sul mercato», dice a L'Espresso Francesco Longo, docente di management pubblico e socio-sanitario alla Bocconi, all'indomani della pubblicazione del volume Oasi 2025 sullo stato di salute della sanità italiana. Il volume è riassumibile in sette grandi problemi della sanità italiana. Uno di questi è proprio l'incapacità di programmare la formazione di un adeguato volume di medici e infermieri.
Ma torniamo al caso San Raffaele, che è utile per introdurre il secondo grande dramma del Servizio sanitario nazionale, ovvero la capitolazione del modello lombardo, che prevedeva una perfetta armonia fra sanità pubblica, privata-convenzionata e privata-privata.
La teoria è la seguente: «Abbiamo scoperto che non sta crescendo né la spesa pubblica, né quella privata. Questo perché gli italiani benestanti già si rivolgono alla sanità privata (e non hanno consumi in crescita), mentre il resto degli italiani, semplicemente, non può permettersela. Questo comporta una competizione di prezzi fra le strutture private che, a questo punto, offrono sconti per accaparrarsi risonanze magnetiche e tac: c’è chi la offre a 200 e chi a 500 euro, per esempio».
Dunque, alla disuguaglianza fra ricchi che si curano e poveri che non se lo possono permettere, e alla competizione fra ospedali privati, si aggiunge un terzo preoccupante guaio. Il rapporto Oasi evidenzia che i piani regionali di rientro e risanamento, in gran voga negli ultimi decenni, in realtà hanno portato a «una riduzione della quantità di personale e beni sanitari a parità di servizi offerti», spiega il professore, riferendosi all'incapacità del sistema di aumentare la produttività, ovvero di offrire servizi a fronte di una riduzione del personale e dei mezzi a disposizione.
Detto altrimenti, si sono fatti tagli, ma non si è migliorato il modo di lavorare nei nosocomi. Un problema grande per la sanità pubblica, ma esplosivo per quella privata: «Nel pubblico, il mancato efficientamento viene compensato dal finanziamento in quota capitale; ma nel privato spesso l'unica fonte di guadagno è la prestazione sanitaria. Succede che, con la coperta (per tutti) sempre più corta, gli ospedali pubblici soffrono, ma quelli privati proprio non ce la fanno a sopravvivere con il rimborso di solo 22 euro a visita». Ecco perché i profitti degli ospedali privati sono crollati e, per quelli che lavorano solo in convenzione con il Ssn, i margini sono a zero. «Gli ospedali privati, se non riescono a essere super efficienti, chiudono in perdita e sono costretti a cedere padiglioni e unità», commenta il professore della Bocconi che fa notare come la profittabilità degli ospedali privati dipenda per lo più dall'area a pagamento, ovvero dal privato-privato, poiché le tariffe stabilite dal pubblico sono troppo basse. In pratica, il privato-convenzionato non regge e gli ospedali privati spingono i pazienti verso le visite totalmente a pagamento, per la gioia delle tasche degli italiani.
In questo meccanismo si inserisce la necessità di ridurre i costi fissi, ovvero i salari. Ecco quindi che, al San Raffaele si cerca di contrarre i costi ricorrendo alle cooperative: cosa che al padiglione Iceberg ha scatenato il caos.
La situazione economica e finanziaria del Gruppo San Donato è tale da richiedere massicci sforzi di efficientamento, visto che in autunno il gruppo ha ottenuto un maxi prestito da 1,52 miliardi di euro per pagare debiti pregressi (al 2024 il debito era di 1,57 miliardi) e utile a garantire i dividendi alla famiglia Rotelli, oltre che indispensabile per sostenere l'acquisizione del gruppo polacco Heart of Poland e altre società estere. La società ha emesso un bond da 800 milioni, con cedola del 6,5 per cento, e contratto mutui bancari per 720 milioni entrambi con scadenza al 2031 e interessi che si aggirano attorno ai 90-100 milioni di euro, mentre fino al 2024 gli oneri finanziari erano poco più della metà: 65,9 milioni. Parecchio per un gruppo che, all'ultima riga del bilancio 2024, genera utili per sette milioni, a fronte di 2,57 miliardi di euro di volume d’affari, in crescita del 49 per cento.
Dunque, mentre il Ssn italiano sgancia ai privati meno del previsto, la strategia del gruppo San Donato è sostenere un'operazione di ricapitalizzazione ed espandersi all'estero, per aumentare così il volume d'affari, coprire i debiti con altri debiti, puntare a rimborsare gli interessi dovuti e, probabilmente, rinegoziare ulteriormente i debiti al 2031. Nei fatti, l'operazione ha sì ridotto il rischio di scadenza, ma ha aumentato il rischio di costo poiché all'elevato levarage (è al 5,54, contro una media del 3) ora si accompagna un costo del debito maggiore, rendendo la salute finanziaria del gruppo, dipendente dal mantenimento dell'ulteriore crescita del margine operativo lordo nei prossimi anni. In sostanza, l'azienda punta a migliorare la performance, anche abbassando i costi fissi, come i salari. È per questo che la vicenda del San Raffaele rischia di essere più di un incidente di percorso, ma un segnale di un modello di sanità privata che comincia a scricchiolare sotto al peso di stipendi non competitivi, che fanno a pugni con i livelli di qualità, che devono restare eccellenti per consentire quell'alta marginalità indispensabile ad affrontare almeno il pagamento degli interessi sul debito monstre. Un argomento scivoloso e delicatissimo.
Tutto questo avviene in un contesto di grande caos sanitario, dove – tornando ai sette problemi della sanità, presentati dal rapporto Oasi – facciamo i conti con spese assolutamente randomiche; il sorpasso delle visite a pagamento (51%) su quelle in regime di servizio sanitario nazionale e, sesto problema, l'ingovernabilità delle liste d'attesa.
Ultimo problema, forse il più grave. Le risorse a disposizione del Ssn, sono così scarne da lasciare scoperte intere aree di bisogno. Ad esempio, l'Italia assiste solo un bambino su tre altrimenti dotato; stessa percentuale per la salute mentale; solo il 20 per cento delle dipendenze; sette anziani non autosufficienti ogni cento. Garantisce il 65 per cento dei farmaci. Il resto è a carico delle famiglie. «Anche se avessimo a disposizione il 10 per cento in più di risorse reali, non riusciremmo a coprire tutto. Dobbiamo porci la questione delle priorità e cominciare a discutere di dolorosi aut aut. Decidiamo di offrire una terza linea a un ultraottantenne malato di cancro, ovvero un farmaco oncologico che costa circa 30mila euro a terapia per aumentare l'aspettativa di vita di 2 mesi o con quel denaro trattare un bambino con disabilità per due anni?».
Scelte dettate da un contesto di deserto demografico con cui gli italiani non accettano di fare i conti. Oggi i pensionati sono il doppio dei bambini: 14,4 contro 7,2 milioni. L'Inps sta in piedi grazie a 165 miliardi finanziati dalla fiscalità generale: un esborso che cresce di 10 miliardi l'anno, per puro impatto demografico. Questo spiazza qualsiasi altra spesa di welfare, sanità compresa. Il governo lancia vane promesse, promette soldi per la sanità e una pensione a 64 anni, e mette la testa sotto la sabbia di fronte ad allocazioni economiche casuali in sanità, dove non vengono curati i più fragili, i più poveri o i più bisognosi, ma i più fortunati che, nella tombola della sanità, riescono a estrarre una visita convenzionata al momento giusto.
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