Le voci sulla morte della globalizzazione sono fortemente esagerate, direbbe Mark Twain. Sulla sua fine scommettevano in tanti: dal “Global South” ai Brics, dai “no global” convinti che abbia portato solo diseguaglianze, fino a Donald Trump che ha vinto le elezioni con la sua battaglia isolazionista per riportare l’industria in America (e renderla “Great again”) rompendo i ponti col resto del mondo a colpi di dazi. Il guaio è che alle parole il 47esimo presidente fa seguire i fatti, un paradosso storico se si pensa che a lanciare la globalizzazione, con il libero scambio di beni e servizi attraverso tutto il Pianeta, sia stata proprio l’America utilizzando come architrave – non l’unica – i commerci con la Cina che le supertariffe stanno invece abbattendo.
Quella che sta finendo è però solo la “Globalizzazione 1.0”, imperniata sull’America e sull’asse Usa-Cina, perché tutti gli altri a partire dall’Europa fino al Sud-Est asiatico, hanno imparato la lezione e stanno dando vita alla “Globalizzazione 2.0”. In fondo è quello che Trump voleva, non si sa quanto consapevolmente, in un mondo diviso di nuovo in blocchi, da una parte l’America e dall’altra il resto. Però questo “resto del mondo” vuole continuare a godere dei benefici del libero commercio. Vuole continuare, come insegnava già nell’800 l’economista David Ricardo, a selezionare gli acquisti e gli investimenti basandosi sulla convenienza comparativa in una scelta quanto più possibile vasta.
Così si spiega lo straordinario fervore che percorre le cancellerie di tutto il mondo. Perfino Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, pluriaccusata di impacci e lentezze, è attivissima: in poche settimane si è impegnata a chiudere le trattative commerciali con il Mercosur (il mercato comune del Sudamerica che “vale” 290 milioni di abitanti) vincendo le resistenze degli agricoltori francesi e italiani, ha ripreso il negoziato con l’Australia che era in stallo dal 2023 per una questione di import-export di carne, ha accettato la proposta del presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed al-Nahyan, per un’intesa che faciliti i commerci reciproci. L’obiettivo è stringere sempre più accordi di libero scambio: peraltro l’Ue ne ha già con 74 Paesi e il 44 per cento dei suoi commerci avviene per vie preferenziali. Ma non bastano mai per garantirsi “polmoni” di export vitali per molti Paesi membri a partire da Italia e Germania.

Ma ovunque ci si muove. Gli stessi Emirati stanno scuotendo i partner del Consiglio di cooperazione del Golfo (Bahrein, Arabia Saudita, Oman, Qatar e Kuwait) per creare un’area di libero scambio. Identico spirito d’iniziativa sta febbrilmente attraversando i dieci Paesi dell’Asean, l’associazione del Sudest asiatico (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam). Anche la stessa Cina, in possesso di un surplus produttivo-commerciale di mille miliardi di dollari (un terzo con l’America) che in qualche modo deve “smaltire”, sta cercando nuovi clienti nell’area: Xi Jinping in persona ha visitato a metà aprile Vietnam, Malesia e Cambogia promettendo condizioni favorevoli se stringeranno alleanze con Pechino. Persino l’India di Narendra Modi ha abbandonato il suo tradizionale nazionalismo e si è detta pronta ad aprire le porte al libero scambio commerciale verso l’Asia e l’Europa.
La Globalizzazione 2.0 prende vita. Certo, non è facile fare a meno dell’America, di gran lunga il miglior acquirente per tutti «se si pensa che il suo deficit commerciale è arrivato nel 2024 al record di 918,4 miliardi di dollari, 133,5 miliardi più del 2023», sottolinea Robert Wescott, che fu fra i principali artefici della globalizzazione in quanto consigliere per l’economia internazionale di Bill Clinton nella seconda metà degli anni ‘90. «Gli Stati Uniti contabilizzano il 25 per cento del Pil mondiale, il 50 per cento del valore delle azioni, una quota ancora più alta del mercato mondiale dei bond», aggiunge Wescott dagli uffici del think-tank Keybridge che dirige a Washington. «Bisogna cercare di coinvolgerli il più possibile, non è possibile che un uomo che non ha avuto neanche la maggioranza dei voti (il 49,5 per cento contro il 48,1 di Kamala Harris, ndr) riesca a capovolgere un equilibrio che aveva diffuso benessere e ricchezza. Chi dice che la globalizzazione ha distrutto il lavoro in America non dice il vero: meno del 20 per cento dei lavoratori ha dovuto ripiegare su un impiego meno retribuito, per tutti gli altri si sono aperte prospettive nuove e insperate».
Qualche malessere serpeggiava già da tempo: «Era cominciato il “reshoring”, il rientro in patria delle produzioni decentralizzate in Asia», ricorda Marco Magnani, economista della Luiss che ha dedicato il saggio “Il grande scollamento” agli eccessi della globalizzazione ma anche alle speranze per il “nuovo corso”. «Si è ridotta la differenza nel costo del lavoro, sono diventati più costosi i trasporti, con i robot si possono aprire fabbriche con minore occupazione, nel caso del Made in Italy ci si è resi conto che certe punte di qualità si possono conseguire solo lavorando nel Paese d’origine ricco di expertise e tradizione. Tutto ciò non significa però chiudersi nei propri confini».
Sta di fatto che nel giro di pochi mesi il mondo ha cominciato a “resettarsi” per fare a meno di Trump. Se il tentativo andrà in porto, nella nuova globalizzazione potrebbe trovare luogo perfino la perdita di centralità del dollaro nella finanza mondiale. È il disegno ancora una volta dei cinesi. «Pechino ha scelto la via della tecnologia, e sarà il banco di prova decisivo della sua conquistata leadership in questo settore», commenta Brunello Rosa, economista formatosi alla Bank of England e oggi docente alla London School of Economics. «L’obiettivo è lanciare in grande stile lo yuan, la moneta cinese, in versione digitale, già oggetto di un’ampia sperimentazione in patria. Con l’occasione, la Cina vuole mettere a frutto la rete di alleanze della Nuova via della seta, che coinvolge ormai 150 Paesi per il 50 per cento del Pil mondiale e il 75 per cento della popolazione, nonché il suo sistema dei pagamenti Cips in sostituzione dello Swift, il sistema occidentale. Potrebbe essere una svolta pari al passaggio dalla sterlina al dollaro fra l’inizio e la metà del XX secolo».
La Globalizzazione 2.0 ricorda un’altra recente emergenza. Quando la Russia invase l’Ucraina nel febbraio 2022 scattò la corsa alle fonti alternative di gas. L’Italia fu in prima linea: il ceo dell’Eni, Claudio Descalzi, accompagnato dal premier Mario Draghi (e in Mozambico addirittura dal presidente Sergio Mattarella), percorse in lungo e in largo i potenziali fornitori dall’Africa al Medio Oriente, stringendo contratti e accordi. In due anni la dipendenza da Mosca, che forniva il 40 per cento del gas italiano, è stata annullata. Si è mossa in parallelo l’Ue, ancora più sbilanciata perché dipendeva in media dalla Russia per il 45 per cento del gas. Navi di gas liquefatto russo arrivano ancora nei porti di Rotterdam e Amburgo per fornire i Paesi nordeuropei: ora l’Ue ha annunciato che martedì 6 maggio sarà presentato un piano per lo stop completo, con l’indicazione – si presume – delle nuove fonti di fornitura. Meglio tardi che mai: anche questa è riglobalizzazione.
