La startup italiana CamGraPhic punta a ridurre i costi energetici degli hardware: una sfida fondamentale per lo sviluppo dell’Ia. Su cui scommette anche la Nato

Con il grafene consumi meno

Cosa ha un maggiore impatto sull’ambiente: una tratta Roma-Milano in aereo o generare la nostra immagine del profilo Instagram in stile Studio Ghibli con l’Ia? La risposta in questo caso è ovvia ma, se si sommano le milioni di richieste che ogni giorno vengono indirizzate verso i server di tutto il mondo, il risultato non appare più così scontato. Secondo un report pubblicato ad aprile dall’Iea – l’agenzia internazionale dell’energia – a causa dello sviluppo dell’intelligenza artificiale il consumo di elettricità delle nostre tecnologie più avanzate sarà più che raddoppiato entro il 2030. Le stime parlano di poco meno del 3 per cento delle emissioni globali totali, praticamente come l’attuale traffico aereo. «Questa chiamata “costerà” circa 300 grammi di anidride carbonica. Ma anche vedersi film sullo smartphone non è a costo zero in termini di livello energetico». Andrea Ferrari è professore di nanotecnologia all’Università di Cambridge e direttore del Cambridge Graphene Centre. L’esempio che fa scoperchia una realtà alla quale non pensiamo mai. Nel 2018 ha fondato CamGraPhic insieme a insieme a Marco Romagnoli, responsabile del settore ricerca per le tecnologie avanzate per l’integrazione fotonica presso il Cnit di Pisa. Obiettivo della CamGraPhic è rivoluzionare gli hardware di intelligenza artificiale. Per questo la società recentemente ha ricevuto finanziamenti anche dalla Nato attraverso il suo fondo per l’innovazione.

 

«Noi intendiamo aggiungere il silicio al grafene – spiega Ferrari – togliendo dal silicio tutti quegli elementi che lo rallentano e che lo rendono molto più impattante a livello ambientale». Le ricerche si basano sugli studi che nel 2010 valsero il Nobel per la fisica ai russi Andrej Gejm e Konstantin Novoselov che scoprirono le incredibili proprietà di questo materiale utilizzato nei semiconduttori. E aprirono le porte a tutta una serie di evoluzioni tecnologiche.

 

«Il silicio, infatti, può trasportare la luce, ma il grafene la può modulare. È l’unico materiale che interagisce con la luce di qualsiasi lunghezza d’onda. Grazie a queste tecnologie, si possono abbattere i consumi energetici di data center e hardware informatici di circa l’80 per cento». Lo sviluppo delle infrastrutture informatiche sarà quindi al centro delle applicazioni allo studio dell’azienda, ma non sarà l’unico sbocco. «Ci sono altre funzionalità interessanti – ancora Andrea Ferrari – ad esempio quelle che riguardano i sistemi di aiuto alla guida, dove c’è bisogno di analizzare tanti dati tutti insieme a bassa latenza. Su una macchina che va a 130 chilometri orari è necessario sviluppare un sistema di aiuto alla guida che dia informazioni in pochissimo tempo. La tecnologia sta crescendo: ormai le automobili sono telefonini con ruote».

 

Se entro la fine del 2025 ci saranno i primi risultati sperimentali che dovrebbero portare a un nuovo e più cospicuo round di investimenti, per vedere i primi modelli operativi si dovrà aspettare un po’ di più. «Entro cinque anni dobbiamo avere i primi dispositivi funzionanti da proporre alle business unit delle grandi aziende tecnologiche che li commerceranno su larga scala. Ma lo step successivo sarà passare dalle pilot facility, cioè infrastrutture di migliaia di metri quadrati necessarie a collegare il lavoro delle università con le fabbriche dei grandi produttori. Una di queste sarà a Catania, finanziata con il Chips Act europeo».

 

Dal lato tecnico a quello imprenditoriale. Andrea Ferrari parla delle differenze di approccio agli investimenti pubblici e privati che ci sono tra Europa e giganti geopolitici come Stati Uniti e Cina. «Negli Usa l’attitudine al rischio è molto diversa. Senza voler dare giudizi politici, l’esempio di Tesla è interessante: l’azienda non ha guadagnato un dollaro per tantissimi anni pur investendo miliardi su miliardi. Questa cosa sarebbe impossibile in Europa. Dall’altra parte poi c’è la Cina, dove formalmente l’attitudine è diversa, ma c’è il Governo che finanzia le imprese con gli aiuti di Stato. Se uno vuole fare delle facility, il governo investe quasi a fondo perduto. Qua da noi c’è il mito dei sussidi pubblici come qualcosa da evitare. E nessuno investe in progetti altamente a rischio».

 

Qualcosa, però, forse sta cambiando. «Stiamo realizzando che abbiamo perso terreno. Il lato positivo è che ci siamo svegliati. Con Chips e RearmEU vengono avviate una serie di azioni per incentivare lo sviluppo della tecnologia con gli aiuti di stato, altrimenti ci perdiamo tutti: nessuno si aspetta che le aziende di automobili facciano le autostrade». Bisogna quindi colmare il divario che ci separa dai nostri competitor a livello internazionale. E l’attuale congiuntura – con tanti ricercatori pronti ad andarsene dagli Stati Uniti in disaccordo con le politiche di Trump – potrebbe venire in nostro soccorso. «Possiamo e dobbiamo trarre vantaggio da questa situazione, facendo arrivare e tornare competenze, come ha fatto la Cina. Dobbiamo guardare attentamente a chi arriva dagli Usa nel prossimo periodo».

 

E il nostro Paese, se ben supportato, ha tutte le potenzialità per offrire una solida base a chi vuole scommettere sull’innovazione, come ha fatto CamGraPhic. «Fin dal momento della Brexit abbiamo considerato l’ipotesi di avere una base in Europa. A Pisa c’è Marco Romagnoli che ho conosciuto nel 2013, quando abbiamo lavorato insieme per alcuni bandi aperti dall’Unione Europea per la fotonica e l’elettronica. Sul lungo termine ci muoveremo: questo spazio non è ancora sufficiente. Ma in Italia ci sono capacità e ragazzi laureati di valore. C’è solo l’imbarazzo della scelta».

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