Le folli politiche di Trump muovono una svolta storica. I mercati perdono fiducia negli Usa. E nel dollaro.La nostra moneta ha così l’occasione di rimpiazzarlo come bene rifugio

Ora l’euro può diventare la nuova star

E se fosse l’euro la nuova superstar dei mercati globali, contando finalmente di più, conquistando autorevolezza e dando una spallata alla dominanza del dollaro? È qualcosa di più che un’ipotesi da quando Donald Trump ha cominciato a terremotare l’economia con la sua temeraria politica dei dazi – che già ha portato a un primo trimestre in rosso per la crescita Usa – e poi con i suoi attacchi ai media, alla ricerca, agli immigrati, ai magistrati, all’università, per non parlare del grottesco scontro con Elon Musk. Ma, soprattutto, con la sua imprevedibilità e la sua incoerenza: «Ce n’è abbastanza perché i mercati perdano la fiducia nell’America, nei titoli di Stato, nel dollaro, che infatti stanno crollando, ed è difficile che si riprendano anche in presenza di eventuali ravvedimenti», dice Lorenzo Codogno, già capo economista del Tesoro e oggi consulente con la Lc Associates. 

 

Un colpo ferale l’ha inferto Moody’s quando, il mese scorso per la prima volta nella storia, ha ribassato il rating degli Usa dalla tripla alla doppia “A”. Il costo del «credit default swap», il future-assicurazione sugli investimenti in titoli sovrani, si è impennato: a maggio ha quotato 54 punti-base, perfino più dell’Italia che valeva 53 e vicino alla Grecia (57), mentre il Cds della Germania valeva 12 punti. «Si parla di rischio politico, non d’insolvenza: l’America non fallirà mai», ha chiarito Scott Bessent, segretario al Tesoro. Ma i mercati gli hanno creduto fino a un certo punto. Crederanno, invece, nell’euro in questo tsunami epocale?

 

Spiega Codogno: «Il fattore Trump ha cambiato il paradigma di mercato e fatto saltare un equilibrio che reggeva dalla conferenza di Bretton Woods del 1944 ed era passato attraverso la fine della parità aurea del 1971, la crisi dei subprimedel 2008, l’esplosione del disavanzo federale salito dal 60 al 120 per cento del Pil negli ultimi 25 anni. Qualsiasi cosa accadesse, il bene rifugio per definizione erano le attività in dollari. Ora con Trump non è più così». Traballa il «privilegio esorbitante», come lo chiamava Valéry Giscard d’Estaing, la capacità di finanziarsi all’infinito battendo moneta. Da Larry Fink, capo di BlackRock, al potente ceo di Jp Morgan, Jamie Dillon, molti riducono la loro esposizione in dollari e titoli del Tesoro. Quando, il 5 giugno, la Bce ha abbassato dal 2,25 al 2 per cento i tassi d’interesse, secondo i meccanismi consolidati si doveva assistere a un ribasso della valuta interessata: «Invece, stavolta l’euro si è apprezzato malgrado il taglio», conferma Lorenzo Bini Smaghi, già nel board della Bce e oggi presidente della Societé Genérale. «Significa che ci sono dei fattori di più lungo periodo che portano gli investitori a rivedere le loro valutazioni di rischi e opportunità a favore dell’Europa. È essenziale che i Paesi europei sappiano sfruttare il momento».

 

Che i flussi finanziari globali abbiano cominciato a muoversi verso il Vecchio Continente lo conferma il report “Follow the flow”, datato 6 giugno, della Bank of America: «I flussi netti sono positivi da sette settimane consecutive con una media settimanale di 3,7 miliardi di euro e salgono a 15 settimane per i fondi a breve termine. Anche titoli meno pregiati (i junk-bond del settore privato, ndr) registrano lo stesso trend da quattro settimane e nell’azionario si va nella stessa direzione». Insomma, l’occasione offerta da Trump è straordinaria, forse irripetibile: i mercati sono alla ricerca di un nuovo “safe asset”, una valuta solida in grado di rimpiazzare il dollaro in cui non credono più. Quale miglior moneta se non l’euro? I “concorrenti” sono la sterlina, che riprenderebbe la posizione persa all’inizio del XX secolo, ma soffre dell’isolamento che si è autoinflitta con la Brexit, oppure lo yen giapponese, espressione di un’economia forte, ma compromessa da un debito pubblico superiore al 220 per cento del Pil, o ancora lo yuan cinese, che però, pur rappresentando la seconda economia del Pianeta, non è convertibile. Insomma, non resta che l’euro: non a caso è già la seconda valuta nella classifica delle riserve globali con il 16 per cento, ancora lontano dal 79 del dollaro (le altre monete si dividono la parte restante), ma in lenta salita.

 

Sull’andamento di questa salita è determinante la volontà degli stessi europei. «L’euro c’è, manca l’Europa», dice Brunello Rosa, docente alla London School of Economics: «Mario Draghi non si stanca di ripetere che bisogna emettere più eurobond, quantificando in 800 miliardi l’anno il fabbisogno di denaro “comune” per gli investimenti che servono in difesa, transizione, welfare». Ma il nodo sono le dimensioni del mercato dei titoli quotati in euro. Un conto l’hanno fatto due prestigiosi economisti, Olivier Blanchard del Mit e Ángel Ubide di Citadel: «Il mercato degli eurobond è troppo ristretto», scrivono in un rapporto redatto per il Peterson Institute for International Economics, un think-tank di Washington. «Ci sono gli eurobond emessi per finanziare il Next Generation Eu (quello da cui deriva il Pnrr, ndr) per 450 miliardi che raggiungeranno i 700 nel 2026, poi i bond emessi dal fondo salva-Stati per 270 miliardi che possono salire a 600, infine i bond della Banca europea degli investimenti per 250 miliardi. In totale, si arriva a un trilione di euro (mille miliardi) contro i 35 trilioni di dollari del mercato dei bond americani». Un confronto impari, pur considerando che, dopo i recenti rincari, per un euro servono ormai 1,3 dollari (erano in parità all’inizio dell’anno). «Ci si potrebbe rivolgere al mercato dei bund tedeschi, che arriva a 2,5 trilioni, ma è comunque troppo piccolo e poco liquido, anche se la Germania mantiene la tripla “A”. Una possibilità  è la conversione di un quarto dell’indebitamento complessivo dei Paesi dell’euro in debito comune, possibile anche senza cambiare i trattati. Il risultato sarebbe la creazione di un mercato di circa 5 trilioni di euro, sufficiente perché entri nel circuito degli investitori internazionali». Un’operazione di ingegneria finanziaria ardita che presuppone un accordo politico sulla cessione parziale di sovranità, da sempre il maggior ostacolo alla nascita di un mercato unico dei capitali. «La situazione potrebbe cambiare – riprende Rosa – in considerazione del rivoluzionato ordine economico globale per il ciclone Trump e di un rinnovato spirito europeistico spinto dalle nuove emergenze e dall’opportunità dei vuoti aperti dal dollaro».

 

Intanto bisogna guardarsi dall’aggressività cinese. Pur di conquistare spazi di mercato, Pechino si gioca la carta digitale: «È iniziata una sperimentazione dello yuan digitale che ha le potenzialità per allargarsi», spiega Rosa che sulle valute digitali ha scritto il saggio “Smart Money”. Non a caso la Bce sta accelerando i tempi per l’euro digitale (i primi test sono previsti nel 2026) destinato a escludere le multinazionali Usa da parte delle transazioni elettroniche. Quanto a Trump, per entrare nelle valute digitali ha benedetto gli “stablecoin”, una variante dei bitcoin agganciata al dollaro con un rapporto fisso, promuovendone l’utilizzo per comprare titoli del Tesoro e creando un fondo di riserva nazionale. Che cosa non si farebbe per mantenere il “privilegio esorbitante”.

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