Il divorzio con Musk, apre una partita tutta politica che grava come un’ipoteca sulle elezioni di midterm. Repubblicani in subbuglio. Spettro terzo partito

Il fattore X che può sgretolare le certezze di Trump

«È come se fossimo bambini intrappolati nel mezzo di un brutto divorzio tra mamma e papà». Con questa metafora, tra il tagliente e l’ironico, il senatore texano Ted Cruz traduce il disagio che è serpeggiato tra molti repubblicani al Congresso, nei giorni successivi alla rissa pirotecnica tra due ex alleati: Donald Trump ed Elon Musk.

 

Restano fedeli al presidente come soldatini, ma quando si tratta di schierarsi contro il ceo di Tesla, X e SpaceX improvvisamente i muscoli diventano molli. In vista delle elezioni di metà mandato del 2026, quando il Gop dovrà assolutamente cercare di difendere la maggioranza alla Camera, nessuno tra chi cerca la rielezione ha voglia di finire nella lista nera dell’uomo più ricco del Pianeta. Un personaggio che, con una sola raffica di post su X e una montagna di dollari, può trasformare un deputato o un senatore in un meme. Come ha già minacciato nelle scorse settimane, inveendo contro tutti quelli che avrebbero votato a favore del “One Big Beautiful Bill”, la finanziaria da lui definita un «disgustoso abominio», perché «aggraverebbe il debito pubblico» e «porterebbe il Paese alla recessione». Il pomo della discordia.

 

A Trump è bastato solo un post, però, per riafferrare il manico del coltello. Per anni le imprese di Musk hanno viaggiato col vento in poppa, spinte non solo dal genio del capo ma anche da una pioggia di soldi pubblici: commesse miliardarie, sconti fiscali e bonus di ogni sorta. Trump «si è limitato a ricordare che è lui il presidente e che potrebbe mettere a rischio quei contratti e quegli accordi», scrive su “The Bulwark” Bill Kristol, uno dei più autorevoli commentatori conservatori negli Stati Uniti. Il sottinteso, spiega l’esperto, è più pesante: con i Maga al comando, il potere esecutivo potrebbe facilmente metterlo sotto torchio, indagando a fondo sulle sue attività e perfino sulla sua vita privata. Un motivo più che valido per premere subito il tasto della de-escalation, azionata già nei giorni successivi allo scontro. Ma guai a fidarsi troppo: quando in campo restano due teste calde, la quiete è solo una tregua, mai una garanzia.

 

Trump ha agitato lo spettro di «gravi conseguenze» se Musk dovesse flirtare con i democratici, ma le sue minacce, stavolta, sembrano più sussurrate: niente se si pensa agli strali riservati ad altri avversari. Il tycoon, si dice, pare abbia persino giustificato le uscite come effetti collaterali delle droghe o di qualche pillola di troppo. «Musk lo ha messo in una posizione scomoda», ragiona Costas Panagopoulos, professore di Scienze politiche alla Northeastern University di Boston. «Se esagerasse, ammetterebbe implicitamente un errore di giudizio, rischiando di apparire debole agli occhi della base e minando la sua popolarità».

 

All’indomani della rottura, Elon ha aperto ai suoi 220 milioni di follower su X un sondaggio provocatorio: «È ora di creare un nuovo partito politico in America che rappresenti davvero l’80 per cento della popolazione nel mezzo?». Oltre cinque milioni e mezzo i votanti, a stragrande maggioranza favorevoli alla nascita di una forza alternativa. Potrebbe chiamarsi America Party, riprendendo il nome del super Pac con cui Musk aveva finanziato la campagna presidenziale, con una clamorosa iniezione di quasi 300 milioni di dollari.

 

«Molti elettori in America preferirebbero un terzo partito che competa in modo significativo sulla scena nazionale. Ma la struttura del nostro sistema elettorale potrebbe creare complicazioni peggiori dei problemi che abbiamo ora con il bipartitismo», riflette Panagopoulos. Qualche analista azzarda il rischio di un “effetto Ross Perot”, ricordando l’avventura del miliardario texano che nel ’92, senza pedigree politico, riuscì a sottrarre voti a entrambi i partiti, spianando la strada a una vittoria più ampia per il democratico Bill Clinton contro l’allora presidente repubblicano George H. W. Bush. Con tutte le cautele del caso (stiamo parlando di midterm), l’accostamento non è del tutto peregrino per il politologo. «In un Paese così diviso e polarizzato è sempre plausibile una situazione simile».

 

Attualmente il Partito Repubblicano detiene la “tripletta” Casa Bianca, Senato e Camera, ma in quest’ultima la maggioranza è estremamente risicata: 220 seggi contro 213. Musk, che anche volendo non potrà mai aspirare alla Casa Bianca vista l’origine sudafricana, potrebbe però lasciare la sua impronta finanziando al Congresso gli sfidanti ai repubblicani fedeli a Trump o sostenendo candidati terzi nei seggi chiave o addirittura nomi democratici. Scenari impensabili fino a poche settimane fa, nel pieno del “più grande bromance del secolo” come da questa parte dell’Atlantico qualcuno definiva l’alleanza.

 

La “liaison” era iniziata nel 2024. Dopo anni di donazioni ai democratici e frecciate al primo Trump, Musk cambia rotta. L’endorsement arriva a seguito dell’attentato di Butler. Dopo l’insediamento è il consigliere ombra e l’anima del Doge, l’Ufficio per l’efficienza governativa, incaricato di sforbiciare la burocrazia e tagliare la spesa pubblica (con esiti deludenti). Partecipa a riunioni di gabinetto, incontra capi di Stato, si aggira per la West Wing in t-shirt e cappellino, rompendo ogni protocollo. Dietro le quinte, però, il clima si fa incandescente. L’approccio da ceo genera frizioni con lo staff presidenziale e con figure di spicco come la capa di gabinetto Susie Wiles. Emblematici, poi, gli alterchi con il titolare del Tesoro Scott Bessent (con cui arriva quasi alle mani) e con il consigliere economico Peter Navarro definito «un idiota». Musk, infatti, non appoggia la politica dei dazi e difende la dipendenza della Silicon Valley dai talenti nati all’estero. Il colpo di grazia arriva quando Trump ritira la nomina di un suo uomo, Jared Isaacman, alla Nasa per segnare un ridimensionamento dell’influenza del magnate. Che la stella si stesse offuscando, il team presidenziale lo aveva capito già ad aprile, quando il candidato a giudice della corte suprema statale sostenuto dall’imprenditore era stato rovinosamente sconfitto in Wisconsin, nonostante i venti milioni di dollari buttati nella tornata elettorale locale più dispendiosa di sempre.

 

Trump e Musk si separano il 30 maggio, con un commiato attento a salvare le apparenze: nello Studio Ovale il presidente lo elogia come «uno dei più grandi innovatori che il mondo abbia mai prodotto». Ma la tregua dura poco e, come dice Steve Bannon, Elon furioso attraversa il Rubicone. Pubblica compulsivamente, rilanciando vecchi post del tycoon per evidenziarne le contraddizioni e arrivando persino a suggerire un coinvolgimento nei “file Epstein”, il finanziere suicida accusato di traffico sessuale di minori. Post cancellato successivamente, come quello in cui appoggiava un eventuale impeachment.

 

Intanto, le azioni di Tesla continuano a inabissarsi. E si stimano perdite complessive del patrimonio personale per oltre cento miliardi di dollari. Fatto salvo il tesoretto consistente di contratti federali, in particolare quelli legati a Starlink. Infatti, il braccio di ferro supera i confini dell’atmosfera e non è così semplice. Washington è ormai agganciata al razzo Musk. In ballo ci sono le missioni SpaceX verso la Stazione Spaziale Internazionale e l’ambizioso programma Starship. «Nella corsa allo spazio il governo ha bisogno di lui tanto quanto il magnate tecnologico ha bisogno del governo – conclude Panagopoulos – è una relazione simbiotica». Quando il Gop dovrà assolutamente cercare di difendere la maggioranza alla Camera, nessuno tra chi mira alla rielezione avrà voglia di finire nella lista nera dell’uomo più ricco del Pianeta

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