Economia
18 luglio, 2025Gelosie, diffidenze, innovazioni interrotte: su banche e capitali pesano le legislazioni nazionali a scapito del rafforzamento dell’economia del Continente
Se non ora, quando? Cresce nei mercati di tutto il mondo lo sconcerto sulle velleitarie e soprattutto imprevedibili iniziative di Donald Trump, e si fa affannosa la ricerca per un nuovo “safe asset”, un investimento sicuro dove allocare capitali e iniziative. È un’opportunità senza precedenti per l’Europa, «che può solo mangiarsi le mani per non essersi preparata adeguatamene a un’occasione del genere», commenta Massimo Bordignon, che è stato per otto anni fino alla primavera 2025 l’unico membro italiano dell’European fiscal board. «Se solo si fosse riusciti a completare l’Unione monetaria potremmo cogliere la possibilità, che ci viene offerta su un piatto d’argento, di emettere titoli meno costosi di quelli attuali con i quali finanziare il welfare, l’alta tecnologia, la svolta ambientale, la difesa comune e tantissime altre cose ancora. Ma soprattutto di dare all’Europa e all’euro il posto che meritano: quello di maggior dignità nel nuovo ordine economico mondiale, ora che Trump ha sconvolto tutti i paradigmi e che i mercati non credono più nel dollaro né nei titoli del Tesoro americani».
Eppure di tempo ne avevamo in abbondanza. I pilastri che mancano per quello che Christine Lagarde, presidente della Bce, ha definito «il ponte verso lo sviluppo», sono due: il completamento dell’Unione dei capitali, un processo avviato nel lontano 2015, e dell’Unione bancaria, progetto lanciato ancora prima, nel 2012, all’indomani della crisi finanziaria e degli scossoni sull’euro che avevano portato alla quasi-uscita della Grecia, a plurimi collassi bancari in Gran Bretagna, Irlanda e Spagna, al boom dello spread in Italia. «Il motivo per cui in tutti questi anni non si è riusciti a realizzare l’unione dei capitali è semplice e inestricabile al tempo stesso: nessun Paese è disposto a rinunciare a neanche un pezzetto di sovranità», dice Lorenzo Bini Smaghi, già nel board Bce e oggi presidente della Societe Generale. Le singole autorità nazionali, dalla Consob all’antitrust, «non mollano il loro potere e di fatto si oppongono alla libertà di movimento dei capitali attraverso l’Europa con tutti i vantaggi che comporterebbe». Un protezionismo esasperato diventato più forte da quando i sovranisti sono al potere, come in Italia e Ungheria, o in pericolosa crescita come in Francia e Germania. Con effetti collaterali a catena: per esempio, ricorda Bini Smaghi, quasi senza che noi ce ne accorgiamo, diminuisce il numero delle aziende quotate nelle ormai piccole Borse europee: «Sempre più imprese scelgono di quotarsi a Wall Street, mercato di ben altre dimensioni e liquidità, dove vengono meglio valorizzate». Una direzione incoraggiata dai grandi fondi d’investimento che sono tutti di marca americana.
Quanto al secondo “pilastro”, l’Unione bancaria, i problemi sono analoghi. «La vigilanza unica è operativa presso la Bce dal 2014, e ha consentito miglioramenti significativi nella uniformità e nel rigore dei controlli sulle banche, ma qui ci si è fermati», spiega Angelo Baglioni, economista della Cattolica. I governi giocano un ruolo preponderante: «Perché la Germania blocca la fusione fra Unicredit e Commerzbank?», si chiede Giampaolo Galli, economista e direttore scientifico dell’Osservatorio sui conti pubblici. «Eppure ne nascerebbe un grosso e potente gruppo europeo, in grado di fare concorrenza ai colossi americani e cinesi. Se ci fosse l’Unione bancaria, il problema non esisterebbe. Invece oggi contano le gelosie nazionali: addirittura, è limitata la libertà di trasferire fondi da una filiale all’altra di una stessa banca quando le filiali si trovino in Paesi diversi. Nel caso specifico, poi, conta il pregiudizio che ancora anima i tedeschi, insieme con gli altri cosiddetti Paesi frugali (Olanda, Austria, i tre Baltici, ndr) secondo cui è meglio non fare operazioni finanziarie che associno all’Italia o ad altre nazioni “spendaccione” e inaffidabili. Una mentalità ampiamente superata perché le banche italiane, almeno le maggiori, non hanno ormai niente da invidiare al resto d’Europa: quest’incaglio blocca di fatto l’Unione bancaria».
Ci sono altri fattori tecnico-politici che coinvolgono direttamente il nostro Paese. Spiega Brunello Rosa, docente di macroeconomia alla London School of Economics: «Per completare l’Unione bancaria, e quindi in successione come in una spirale per rendere realtà tutto il quadro dell’Unione del mercato dei capitali, manca un tassello chiamato Edis (European Deposit Insurance System). È il sistema europeo di assicurazione dei depositi in caso di fallimento di una banca. La sfiducia reciproca fra i Paesi impedisce di adottarlo, ed è solo per pura fortuna se finora non c’è stato in Europa un crac bancario di tali dimensioni da renderlo indispensabile». Esistono infatti dei fondi nazionali, Paese per Paese, che indennizzano i piccoli risparmiatori nel caso di crisi bancaria, e finora sono bastati.
Non è finita: su un binario indipendente e parallelo viaggia il “Fondo europeo di risoluzione bancaria” che a sua volta serve per organizzare in modo ordinato dal punto di vista contabile e amministrativo, senza il pericolo di squassare l’intero apparato finanziario dell’Eurozona, il fallimento di una banca di dimensioni europee, con la ripartizione delle attività residue, la collocazione delle più rischiose in una bad bank, l’attribuzione alla mano pubblica di parte degli asset e via dicendo. E qui entra in campo l’Italia: la Commissione di Bruxelles ha deciso infatti tre anni fa di dotare il Mes – originariamente concepito ai tempi della crisi dell’euro come strumento di salvataggio dei Paesi in difficoltà – della facoltà di rifinanziare e sostenere questo “Fondo di risoluzione” attingendo alle cospicue risorse finanziarie di cui è dotato il Mes stesso, che possono arrivare a 700 miliardi. «Quest’ennesima reincarnazione del Mes – spiega Rosa – ha bisogno del consenso di tutti i 20 Paesi dell’area euro. Com’è noto, manca solo il voto dell’Italia». Una questione inspiegabile visto il totale stravolgimento della natura del Mes (la sigla genericamente sta per “Meccanismo europeo di stabilità”), che si trascina con i pretesti più fantasiosi: «Perché dovremmo sostenere le banche tedesche?», continua a ripetere Matteo Salvini senza accorgersi di andare completamente fuori bersaglio. «Ormai è d’abitudine che ogni riunione dell’Eurogruppo – dice Rosa – si apra con la domanda: l’Italia ha deciso qualcosa per il Mes? E il povero Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, risponde imbarazzato: non ci sono ancora le condizioni politiche».
Solo una volta messe al loro posto le caselle di questo mosaico, si potrà pensare alle nuove emissioni di eurobond, l’espressione più compiuta di una “vera” unione monetaria, operazione riuscita solo con il piano NextGenEU (“padre” del Pnrr), dietro promessa di essere non replicabile. Ma i due rapporti redatti da Enrico Letta e Mario Draghi l’anno scorso, e la delibera della Commissione presieduta da Ursula von der Leyen questa primavera, ripropongono la questione fissando in 800 miliardi l’anno il fabbisogno europeo per finanziare beni comuni creando nel contempo un nuovo “safe asset” in grado di occupare le posizioni lasciate scoperte dal dollaro sui mercati globali, insomma di cogliere l’opportunità aperta dall’incertezza seminata da Trump. È questa la grande sfida che l’Europa può giocarsi purché esista una volontà politica comune.
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