Economia
22 luglio, 2025Stretta tra la guerra americana dei dazi e la pretesa cinese di farne il proprio mercato di riserva, l’Unione europea fatica a trovare una risposta muscolare. Persino nel commercio, sua punta di diamante
Un luglio così orribile è difficile che l’Unione europea lo dimentichi presto: nel quadro della geopolitica mondiale, se non cambia in fretta qualcosa, rischia di diventare il tavolo su cui gli altri giocheranno le proprie carte.
A Ovest, in nome di un deficit commerciale di 160 miliardi di dollari, gli Stati Uniti vogliono imporle dazi insostenibili con una soglia minima del 30 per cento. A Est, pur avendo un surplus commerciale con la Ue di oltre 300 miliardi di euro, la Cina pretende che i 27 spalanchino le porte alle sue autovetture elettriche e distruggano la propria industria dell’automobile, così come hanno già fatto con la manifattura tessile e l’industria del mobile, poi con gli elettrodomestici, i pannelli solari e l’elettronica. Negli stessi giorni, gli Usa si fanno pregare per fornire all’Ucraina quel minimo di difesa aerea contro una Russia che, con toni sempre più sferzanti, ha ormai adattato alla guerra la sua intera economia mentre la Cina spiega candidamente alla nostra “ministra” degli Esteri, Kaja Kallas, che non può permettersi che Mosca perda perché altrimenti l’intera attenzione statunitense sarebbe concentrata su Pechino. Stretti tra le due super potenze arci-rivali, minacciati da una Russia che ha riscoperto l’istinto imperialista ed è intenzionata a conquistare Kiev, noi europei non solo abbiamo seppellito strumenti e parole del linguaggio della forza, l’unico in vigore al momento, ma esitiamo anche a serrare i ranghi e a reagire con i pochi strumenti a disposizione, nella consapevolezza della strutturale debolezza dell’Unione e nella vana speranza di un ritorno a un ordine mondiale che per tre quarti di secolo ci ha garantito prosperità. Un ordine che non esiste più.
Il commercio era la forza della Ue
Eppure, per decenni abbiamo avuto l’illusione di essere una grande potenza commerciale. Il commercio era quello che sapevamo fare bene: la Commissione europea ha pieni poteri in questa sfera, l’unica in cui gli Stati nazionali abbiano ceduto davvero sovranità. Fintanto che la globalizzazione avanzava e le intese commerciali servivano ad avvicinare e non a respingere, non temevamo rivali. Negli anni abbiamo siglato oltre 40 accordi di libero scambio con ben 72 Paesi in tutto il mondo.
Però, nel momento in cui i venti del protezionismo hanno preso a soffiare oltre che da Oriente anche da Occidente e i ponti costruiti con pazienza da un esercito di burocrati e politici formatisi all’ombra del liberalismo si sono fratturati, abbiamo scoperto le insidie di un’economia totalmente aperta, ingenuamente presi alla sprovvista da un commercio diventato strumento di guerra sotto la guida dei nuovi nazionalismi globali.
I numeri parlano chiaro: secondo i dati dell’Organizzazione mondiale del commercio, l’Unione europea ha un indice di apertura commerciale, determinato dalla proporzione delle somma di importazioni ed esportazioni sul prodotto interno lordo, superiore al 90 per cento. Gli Stati Uniti si fermano al di sotto del 30, la Cina, nonostante la reputazione, al di sotto del 40. Chi ha fatto delle esportazioni il motore propulsivo della propria economia, come Germania e Italia, è destinato a soffrire maggiormente quando le vie commerciali si trasformano in trincee. I paladini del “No global” di inizio millennio stanno avendo un’amara rivincita.
La guerra americana
Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno deciso di sfruttare quello che forse rimarrà nella storia il momento di massima potenza del loro dominio globale: sicuri dell’incapacità della Ue di essere di aiuto in un conflitto con la Cina, hanno determinato di non avere molto da perdere nell’avvantaggiarsi della sua dipendenza sia militare sia economica, scommettendo su una risposta timorosa e guardinga. E difatti la pur pervicace presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che, forse non casualmente, è mal sopportata sia da Donald Trump sia da Xi Jinping, ha confermato di volere portare avanti il dialogo commerciale con gli Usa fino alla prossima scadenza del 1° agosto, quando i nuovi dazi dovrebbero entrare in vigore. Due pacchetti di contromisure (il primo da 22 miliardi di euro era stato preparato per rispondere ai dazi contro acciaio e auto, il secondo da 72 miliardi di euro è stato appena annunciato) per un totale di quasi 100 miliardi di euro per il momento restano nel cassetto. Sono un’extrema ratio da usare solo se non resterà via di uscita perché avranno inevitabilmente un impatto anche sui cittadini europei. D’altronde, l’azione della Commissione non può ignorare le attuali implicazioni politiche del commercio su cui si dividono gli Stati membri, con la Francia che spinge per una risposta muscolosa e intanto raddoppia la spesa in armamenti, e la Germania, l’Italia e l’Irlanda che faticano a staccarsi dalla dipendenza atlantica. Da settimane l’Unione sta pagando dazi del 50 per cento su acciaio e alluminio, del 25 sulle automobili e del dieci su tutto il resto: ora la nuova richiesta di dazi al 30 per cento come base minima.
Potrebbe essere soltanto un’altra mossa negoziale ma certamente è un preludio a un inevitabile schiaffo economico che arriva contestualmente all’accettazione da parte europea della richiesta americana di una spesa militare europea più che raddoppiata nei prossimi dieci anni. «Temo che se non reagiremo con forza gli americani non faranno marcia indietro sui dazi perché hanno deciso di usarli in modo strutturale, in sostituzione di una parte delle loro tasse», spiegava qualche giorno fa l’europarlamentare Bernd Lange, presidente della Commissione commercio dell’Eurocamera, che sulla questione non ci dorme la notte.
Le pretese cinesi
Questa pesante situazione economica imposta dagli Usa è aggravata dalle mosse di una Cina che ogni mese diventa più assertiva. Dopo avere vinto la sfida della dominanza nella manifattura globale, conscia di avere perso quella della finanza, sta ora competendo con Washington sul piano tecnologico. Per farlo ha bisogno di accumulare risorse tramite le esportazioni. Con meno accesso allo sconfinato mercato Usa, si è rivolta all’Europa. L’obiettivo è costringerla ad assorbire la sua produzione in eccesso, utilizzando ogni strumento coercitivo di cui si è dotata negli ultimi anni. A partire dall’accesso alle terre rare, che poi rare davvero non sono, ma di cui detiene un quasi monopolio nella trasformazione in materiale cruciale per le batterie elettriche e l’elettronica.
Così, proprio nell’anno in cui la Ue e la Cina avrebbero dovuto celebrare mezzo secolo di relazioni diplomatiche in un vertice a Pechino il 24 e 25 luglio, i rapporti bilaterali non sono mai stati tanto tesi.
Non solo quest’anno la Cina si è rifiutata di tenere il vertice a Bruxelles, dove avrebbe dovuto avere luogo, secondo la logica di alternanza annuale, ma, a poche settimane dall’evento, con l’obiettivo di costringere la Commissione a revocare i neo dazi sulle auto elettriche, ha imposto limiti severi sulle esportazioni di terre rare. «Pensavamo lo avrebbe fatto solo con gli americani e invece ha fatto peggio con le società europee», dice Alicia Garcia-Herrero del think tank Bruegel. Non contenta, ha anche imposto dazi sul brandy europeo fino al 34,9 per cento, anche se la Francia ha ottenuto una deroga per i principali produttori a condizione di rispettare un prezzo di vendita minimo. Parimenti, Pechino ha vietato la partecipazione europea agli appalti pubblici di dispositivi medicali in risposta alle restrizioni della Ue agli operatori cinesi nei contratti sanitari europei superiori a cinque milioni di euro in seguito al “made in China” in via prioritaria imposto da Pechino internamente.
La situazione commerciale è diventata così tesa che Bruxelles ha cancellato l’incontro preparatorio al vertice, spiegando che, in queste condizioni, non è possibile siglare nessun accordo. Piccata, la Cina ha tagliato la seconda giornata del vertice dal programma, quella che avrebbe dovuto tenersi ad Hefei, la capitale dell’auto elettrica cinese. «La retorica cinese è fatta apposta per fare reagire l’Europa», dice Garcia-Herrero: «È un modo per evitare il protezionismo europeo. Ma la Commissione deve andare avanti con dazi e barriere perché il gioco cinese non è pulito e non si può fare nient’altro. La Cina è troppo grande».
Il vertice celebrativo, a cui Xi aveva persino minacciato di non partecipare, sarà probabilmente ridotto a un incontro in cui si parlerà solo di difesa del clima: non tanto di ambizioni ma di obiettivi già ottenuti, unico ambito da cui potrebbe uscire un comunicato congiunto.
50 Anni di relazioni sempre più tese
Nei confronti delle pratiche commerciali cinesi la Commissione negli ultimi cinque anni è diventata gradualmente assertiva, particolare che ha inacidito Pechino, portandola all’offensiva. «In soli 50 anni il Pil cinese è cresciuto più di dieci volte», ha detto Von der Leyen durante l’ultima plenaria europea prima della pausa estiva: «Una volta una società agraria, la Cina è diventata un gigante industriale e un leader nelle tecnologie pulite». Poi però ha sottolineato i problemi che rendono il rapporto commerciale molto difficile, quando non pericoloso: «Noi, la Ue e la Cina, siamo due delle tre maggiori potenze commerciali al mondo. Ma commerciamo solo per due miliardi di euro al giorno, ovvero due volte il commercio con la Svizzera. Questo perché nonostante il mercato cinese sia enorme, il nostro accesso resta limitato». Il problema è che la Cina ha «strumenti unici a disposizione per competere fuori dalle regole»: è in grado non solo di inondare il mercato globale ma di soffocarlo; di favorire con un 20 per cento di vantaggio le società cinesi negli appalti pubblici e di condurre attacchi cibernetici e operazioni di influenza dell’opinione pubblica in Europa. TikTok è sotto una nuova indagine della Ue per il trasferimento di dati dei cittadini europei a server cinesi. Dopo una sanzione di 530 milioni di euro stanno emergendo possibili violazioni della regolamentazione europea sulla privacy. L’Europa non ha scelta: è costretta se non a separare le sue filiere commerciali da quelle cinesi, almeno a minimizzarne i rischi: «Possiamo dire che la Cina stia di fatto sostenendo l’economia di guerra russa», ha accusato senza mezzi termini von der Leyen, riassumendo le preoccupazioni europee per la propria sicurezza.
Questa sarà probabilmente la quinta volta consecutiva che il dialogo Europa-Cina si chiuderà senza alcun risultato: sempre più una realtà strutturale e non una congiuntura. Anziché stendere tappeti rossi in giro per il globo e incrociare sorrisi vuoti, forse è il momento di essere noi a copiare Pechino e di passare all’azione. Investendo capitale umano e risorse per creare un sistema industriale, tecnologico e militare europeo che serva gli interessi degli europei. Con l’obiettivo di rinsaldare l’Unione e ridurne le dipendenze globali. Economiche, politiche e militari.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Cementopoli - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 25 luglio, è disponibile in edicola e in app