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24 luglio, 2025L’iper-regolamentazione si sta rivelando sempre più come un freno alla competitività, un ostacolo all’innovazione e un elemento di debolezza nella proiezione geopolitica
Nel sistema globale contemporaneo, l’Unione europea si distingue – e spesso si compiace di farlo – per la sofisticazione del proprio impianto normativo. Sin dalle origini, il progetto europeo ha fatto della regolazione non solo un meccanismo tecnico di armonizzazione, ma un vero strumento politico di integrazione e civiltà: uno spazio comune in cui i diritti, l’ambiente, la concorrenza e il consumatore venissero tutelati attraverso regole condivise e avanzate. Una conquista storica, che ha rappresentato una discontinuità positiva rispetto alla frammentazione e alla conflittualità del Continente nel secolo scorso.
Tuttavia, ciò che ieri appariva come un modello giuridico di successo, oggi mostra i suoi limiti. L’iper-regolamentazione – o per dirla con il lessico della teoria politica, il regulatory overreach – si sta rivelando sempre più come un freno alla competitività, un ostacolo all’innovazione e un elemento di debolezza nella proiezione geopolitica dell’Europa. In un mondo dove la rapidità decisionale è un asset cruciale, la macchina normativa europea rischia di produrre un eccesso di complessità, rigidità e autoreferenzialità.
Il paradosso europeo è evidente. Non si tratta semplicemente del numero delle norme, ma della loro qualità: la loro stratificazione, l’inadeguata valutazione d’impatto, la frequente disconnessione rispetto ai contesti globali. Troppo spesso le regolazioni europee sembrano concepite in astratto, più come esercizi di principio che come strumenti di governo della realtà.
In nessun ambito il cortocircuito tra ambizione normativa e incapacità strategica è più evidente che nei settori chiave del XXI° secolo. L’AI Act, il primo regolamento europeo (e mondiale) sull’intelligenza artificiale, è stato accolto come un esempio di leadership normativa. Ma proprio questa leadership rischia di diventare autoreferenziale se non accompagnata da un ecosistema industriale e finanziario in grado di sostenere l’innovazione. Mentre Stati Uniti e Cina investono massicciamente in AI, l’Europa impone vincoli, requisiti e audit etici che, in assenza di una filiera tecnologica autonoma, finiscono per scoraggiare le startup e favorire attori extraeuropei.
Stesso discorso per la transizione energetica. Il Net-Zero Industry Act intende fare dell’Europa il leader mondiale della decarbonizzazione. Ma si tratta di un impianto ambizioso sul piano degli obiettivi, poco efficace su quello dei mezzi. Le misure industriali sono ancora frammentarie, i finanziamenti insufficienti, e la capacità di attrarre capitali privati troppo bassa rispetto alla concorrenza americana e asiatica.
Anche il celebrato Gdpr (Regolamento generale sulla protezione dei dati), riconosciuto come uno standard globale in materia di privacy, è oggi percepito da molte imprese e investitori come un ostacolo burocratico all’uso strategico dell’informazione, alla cooperazione internazionale e alla crescita digitale. La logica della protezione dei dati, legittima sul piano della teoria dei diritti, può diventare – se isolata e non realisticamente bilanciata con i diritti economici– un limite alla loro valorizzazione, il che è un paradosso considerato che i dati, piaccia o no, sono la materia prima indiscussa dell’economia contemporanea.
Infine, il mercato unico dell’energia resta incompiuto: vincoli comunitari e regole nazionali si sovrappongono, rendendo difficile la realizzazione di infrastrutture transfrontaliere e la definizione di una politica energetica comune. Una contraddizione grave, in un momento storico in cui l’autonomia strategica in campo energetico è tornata centrale.
Un ulteriore sintomo di rigidità normativa è l’abbandono, in molti settori, del principio di neutralità tecnologica. Nel campo della mobilità sostenibile, per esempio, l’Ue ha scelto di puntare quasi esclusivamente sull’elettrificazione, marginalizzando soluzioni come i biocarburanti, i carburanti sintetici e l’idrogeno. Scelte che non tengono conto della varietà delle condizioni industriali e infrastrutturali nei diversi Stati membri e che appaiono colpevolmente penalizzanti, anche sul piano della garanzia occupazionale, di ampi territori e comunità non ancora in grado di sostenere questa transizione. Similmente, l’imposizione in molti settori, come nell’ambito Esg (Environmental, social, governance), di standard normativi rigidi e pensati su misura per le grandi multinazionali globali, rischia di diventare una barriera all’ingresso per le Pmi, che rappresentano la spina dorsale dell’economia europea. Molte di queste aziende non hanno le risorse per adeguarsi ai nuovi obblighi senza sacrificare competitività e margini. Il risultato è una distorsione concorrenziale che nemmeno le autorità antitrust sembrano pienamente cogliere, e che finisce per penalizzare i segmenti più dinamici e vitali del tessuto economico europeo.
Il confronto con le altre grandi potenze è impietoso. Gli Stati Uniti e la Cina, pur avendo meno regole, attraggono più capitali, producono più brevetti e sono in grado di adattarsi più rapidamente ai cambiamenti tecnologici. In entrambi i casi, la regolazione o se occorre la deregolazione selettiva sono subordinate a una visione politica di lungo termine, non viceversa. L’Europa, invece, sembra aver invertito il rapporto tra fini e mezzi. Le norme non sono più uno strumento, ma spesso diventano il fine stesso dell’azione pubblica. Questo riflette una più ampia crisi di visione strategica.
Il filosofo Jürgen Habermas ha parlato di un doppio deficit dell’Unione: democratico e funzionale. L’Ue non dispone ancora di una piena legittimazione politica e, al tempo stesso, non viene più percepita come efficace. Nemmeno la “legittimazione tecnica” evocata da Andrew Moravcsik — basata sulla razionalità ed efficienza dei processi decisionali — sembra oggi bastare. La distanza tra istituzioni e imprese e cittadini cresce, alimentando sfiducia e disillusione. Questa fragilità strutturale rende sempre più difficile pensare a un’Europa politicamente unita, a quella “Federazione di Stati” auspicata sin dall’epoca di Altiero Spinelli, che richiederebbe un’autorevolezza internazionale oggi ancora troppo condizionata dalla frammentazione decisionale e da un’impostazione normativa autoreferenziale. In assenza di una reale capacità di incidere sugli equilibri globali e di farsi percepire come punto di riferimento politico ed economico, l’Unione si allontana progressivamente dal progetto – mai del tutto compiuto – degli “Stati Uniti d’Europa”.
Per invertire la rotta, l’Europa deve ripensare la regolazione come strumento, non come fine. Servono norme più semplici, proporzionate, valutate con attenzione rispetto agli impatti economici, sociali e geopolitici. Serve una vera politica industriale comune, che affianchi la regola con investimenti, alleanze e visione. E serve soprattutto una governance più aperta all’innovazione, capace di ascoltare e sperimentare. Non si tratta di rinnegare la cultura giuridica europea, ma di restituirle senso strategico. In gioco non c’è solo la crescita economica, ma la credibilità stessa dell’Unione come attore globale in grado di influenzare gli equilibri geopolitici del mondo. Per non scivolare nell’irrilevanza, l’Europa deve ritrovare il coraggio della propria ambizione originaria: divenire un’Unione capace di coniugare libertà e potere, valori e visione, regole e storia.
*Docente di Teoria generale della sostenibilità di impresa e della innovazione sociale
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