Economia
18 agosto, 2025Agosto segna la svolta, dicono gli analisti. Tra poco le conseguenze della politica del tycoon si ritorceranno contro gli Usa. “Lasciate che viaggi sul suo Titanic”, dice l’economista Stiglitz
Chiamiamolo Andrew. È un giocatore di football americano, gioca da “halfback”, un attaccante agile e veloce. Così veloce che in un contrasto subisce un colpo alla testa talmente grave da cadere in coma. È novembre 2024, ha avuto appena il tempo di votare per Donald Trump. Ma Andrew è forte e neanche due mesi dopo si risveglia, non avrà nessun danno permanente e già è tornato a giocare. Però si guarda intorno perplesso. Si è risvegliato in un mondo del tutto diverso da quello che aveva temporaneamente lasciato. Gli Stati Uniti non sono più a pieno titolo in nessun’organizzazione internazionale. Hanno chiuso perfino l’agenzia che aiutava i Paesi più poveri, la USAid. Nelle loro università è diventato difficile iscriversi se sei straniero. Le frontiere sono praticamente chiuse e se ti trovano senza i documenti giusti vieni deportato senza pietà neanche fossi un criminale comune. Se sei un magistrato devi stare attentissimo nei tuoi giudizi, altrettanto se sei un professore, dall’università alle scuole medie.
In economia poi, è la rivoluzione: che fine ha fatto la globalizzazione che ha riscattato centinaia di milioni di persone? E la libertà negli scambi che è stata il motore per lo sviluppo comune? E l’armonia, lo spirito collaborativo in Occidente che ha attraversato i decenni dalla fine della seconda guerra mondiale? La parola d’ordine, l’ossessione del presidente che Andrew aveva votato, è una sola: «Tariff», dazio. Brandita come un’arma di ricatto al servizio di qualsiasi capriccio dell’unico grande boss: Trump. Sprezzante e arrogante, proclama senza pudori che il mondo è debitore verso l’America e il suo compito è ripristinare il potere a stelle e strisce, a costo di sommergere l’economia planetaria in una sarabanda di annunci, rettifiche, rinvii, ripensamenti, contraddizioni.
L’amico americano, la «nazione indispensabile» come la definiva Madeleine Albright quand’era segretaria di Stato con Bill Clinton, si è trasformata di colpo in un nemico, in una potenza dedita solo a “estrarre” risorse a favore degli Stati Uniti. Antichi alleati o vecchi avversari non importa, «ora tutti devono pagare i loro presunti e spesso incomprensibili debiti verso l’America», dice Kenneth Rogoff, l’economista di Harvard che ha scritto un libro dal titolo significativo: “Our dollar, your problem”. Anzi, puntualizza con amarezza Joseph Stiglitz, il guru della Columbia, padre nobile di tutti gli economisti progressisti del mondo, quando lo sentiamo al telefono: «Il resto del mondo deve pagare pegno a una corrotta oligarchia di vertice, il cerchio magico di Trump». Il tycoon diventato politico non cerca nascondigli: ha chiamato con macabra ironia “Big beautiful bill” la legge finanziaria di base che ha firmato solennemente il giorno della festa nazionale, il 4 luglio, zeppa di riduzioni fiscali ai ricchi e alle corporation e di tagli allo stato sociale. Poco importa se comporterà 5mila miliardi di debito aggiuntivo ai 37mila miliardi già esistenti, il 123 per cento del Pil. Basterà emettere dollari per coprire tutto. «Non potrà andare avanti così a lungo, lasciate che viaggi sul suo Titanic», sibila Stiglitz. Non era questa l’America che aveva lasciato Andrew, c’era consapevolezza delle regole economiche, prevedibilità e razionalità, per non dire di democrazia e libertà. Tutto stravolto in pochi mesi.
C’è chi dice che quest’estate rappresenterà il picco del potere senza limiti del presidente, perché al di là del caos l’inflazione e la recessione cominciano a farsi strada nelle analisi più attente «e puoi essere leale quanto vuoi verso un leader finché questo non comincia a spillarti denaro», come scrive Janan Ganesh sul Financial Times. «È comprovato dalla scienza economica che i dazi sono una tassa in più che gli importatori, in ultima istanza i consumatori e contribuenti americani, sono costretti a pagare», puntualizza Robert Wescott, l’economista che guidò Bill Clinton negli anni d’oro della grande apertura dei mercati. «Nei primi mesi, i costi possono emergere solo in parte perché le aziende importatrici cercano di riassorbirli, qualche esportatore magari abbassa i listini pur di non perdere quote di mercato, ma a un certo punto inevitabilmente i giochi si fanno chiari e la realtà appare in tutta evidenza».
Non è un caso che questo punto di svolta sia in agosto: «Un mese di sospensione dell’attività anche in America, in cui gli scambi in titoli e azioni sono ridotti e infatti basta poco per influenzare i listini, in cui l’opinione pubblica è distratta e più disposta a tollerare la raffica di annunci contrastanti provenienti dalla Casa Bianca», spiega Robert Engle, economista della Nyu, premio Nobel nel 2003. Lo chiamano “Peak Trump”, il momento di massimo splendore. Alla ripresa, non ce n’è più per nessuno: «Un’auto rischia di costare 12 mila dollari di più, ogni famiglia dovrà tollerare dai 4 mila dollari in più l’anno per il carrello della spesa, la contrazione dei consumi è già in programma e colpirà per prime le classi più povere». Intanto il parmigiano a Manhattan già costa 60 dollari al chilo (18 euro in Italia il Reggiano di montagna).
L’isolamento protezionistico in cui si è rinchiuso Trump penalizzerà per prima l’America. «A meno che l’Europa o chiunque altro faccia l’errore fatale, in grado di sovvertire l’ordine delle cose, di rispondere imponendo a sua volta dazi “reciproci” che andrebbero a colpire il Paese che li emette», spiega Marcello Messori, economista dell’Istituto universitario di Firenze. «C’è un altro pericolo che vedo ancora più incombente: che il governo ceda alle lobby e conceda sussidi e “ristori” per i danni causati dalla restrizione del mercato americano. Sarebbe il più gran regalo a Trump: il contribuente straniero sovvenziona la perdita degli americani. I dazi fanno parte del rischio d’impresa di fronte al quale non può esserci indennizzo».
Ma la rivoluzione trumpiana non finisce qui. Il nostro giocatore di football si ritrova in una situazione totalmente diversa anche nella lotta ai cambiamenti climatici. Fino all’ultimo giorno della presidenza di Joe Biden, gli Stati Uniti erano impegnati al fianco dell’intera comunità internazionale per quest’emergenza globale, che in America ha provocato eventi calamitosi, dagli incendi di Los Angeles all’alluvione in Texas. C’era un “inviato speciale del presidente per il clima” di alto profilo come John Kerry, già segretario di Stato con Barack Obama. C’era soprattutto una volontà di riscatto dopo l’imbarazzante ritiro dagli accordi di Parigi già deliberato da Trump durante la sua prima amministrazione, nel 2018. Biden era prontamente rientrato nel trattato appena eletto nel 2021 e gli Stati Uniti erano stati in prima fila alla Cop15 di Montreal del 2022 nel ridefinire la missione fissando i nuovi impegni climatici nazionali: riduzione delle emissioni del 61-66 per cento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2035. Su impulso di Biden e Kerry era nata la US Climate Alliance, una coalizione bipartisan di governatori impegnati per il clima che rappresentano il 60 per cento dell’economia e il 55 per cento della popolazione. Niente da fare: la sera del suo insediamento, il 20 gennaio 2025, Trump ha annunciato per la seconda volta il ritiro dagli accordi di Parigi. Dal giorno successivo ha ripetuto che il climate change per lui è un’«hoax», una bufala, e ha insistito sul suo cavallo di battaglia pre-elettorale: «Drill, baby, drill», dove “drill” sta per trivellare più pozzi possibile. «L’unica è rassegnarsi e proseguire l’impegno senza l’America per quanto sia paradossale», dice sconsolato Jean Pisani-Ferry, economista di Sciences Po a Parigi e ricercatore al Bruegel di Bruxelles. «Eppure gli scienziati non finiscono di avvertire che il Pianeta sta accelerando verso inquietanti picchi di temperatura. L’obiettivo di contenere l’aumento entro gli 1,5 gradi per la fine del secolo è ormai difficile, e la soglia potrebbe essere superata già nel 2028. Intanto, la perdita di biodiversità accelera rendendo ancora più arduo recuperare la situazione». E recuperarla senza l’aiuto degli Stati Uniti è quasi impossibile.
Eppure, ancora una volta, le politiche di Trump si ritorcono in primis contro l’America stessa, oltre ad avere in questo caso conseguenze disastrose per l’intero malato Pianeta. Un’analisi del dicembre 2024 del Centro per la sostenibilità globale dell’Università del Maryland ha confermato che non solo gli Stati Uniti potrebbero raggiungere una riduzione delle emissioni di gas serra dell’ordine previsto da Biden, ma possono essere protagonisti della nuova era delle energie rinnovabili e delle relative attrezzature (dalle pale eoliche ai pannelli solari). Secondo un rapporto di novembre del Net Zero Industrial Policy Lab della Johns Hopkins, il ritiro degli Stati Uniti dall’energia pulita equivale a un regalo di 80 miliardi di dollari in nuove opportunità di filiera per i mercati mondiali. Di tutto questo nel nuovo ordine globale disegnato da Trump non c’è traccia: l’importante è far capire che ora comanda solo lui.
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