Economia
10 settembre, 2025Il nuovo ad di Dri Italia, che dovrebbe occuparsi del futuro della siderurgia nel Paese, è Ferruccio Ferranti, già manager in una società di Urso. La Dri spende milioni in viaggi, consulenze e stipendi. Mentre l’orizzonte su Taranto resta avvolto nell’oscurità
Problema: il volo andata-ritorno Milano-Bari costa 120 euro. Quanti viaggi hanno realizzato i 9 dipendenti – un impiegato, 4 quadri e 4 dirigenti – della società pubblica Dri Italia spa se, a fine 2024, hanno speso 49.699 euro per le trasferte? Soluzione: 414 viaggi, 828 voli. Si tratta ovviamente di un calcolo privo di senso, ma la domanda resta: come hanno fatto 9 persone a spendere tutti quei quattrini, quando la società Dri è totalmente improduttiva? E quest’anno è andata anche bene: nel 2023 sono stati spesi 95.970 euro per viaggi, il doppio. Ci sono riusciti perché a metterci la grana è Pantalone, le cui larghe tasche sono rimpinguate dai contribuenti, i quali ancora non sanno se quel fiume di denaro avrà un senso, o no. Ma le mangiatoie di Stato sono così. Servono a mangiare, quasi mai a produrre ricchezza. Gli ultimi ad apparecchiarsi al banchetto Dri, che sta per Direct Reduction Iron, ovvero il preridotto, semilavorato siderurgico ottenuto dalla riduzione del minerale ferroso mediante l’utilizzo di monossido di carbonio e idrogeno, sono Ferruccio Ferranti e Cesare Pozzi, nominati ad agosto amministratore delegato e presidente di questa società, incastonata in Invitalia (quindi costola del ministro dell’Economia), che in teoria ha il compito di garantire un futuro sostenibile alla siderurgia italiana, lavorando in sinergia con Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria (l’ex Ilva), il ministero del Made in Italy e quello dell’Ambiente.
Pozzi è professore di Economia Industriale alla Luiss, tenuto in massima considerazione da Fratelli d’Italia, in particolare dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari. Ferranti, che Giorgia Meloni ha nominato presidente di Mediocredito Centrale, la banca di Invitalia, è stato in passato consigliere di una società del ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, la discussa Iws Italy World Services srl (Urso ha poi ceduto le quote al figlio Pietro), ed è stato amministratore della fondazione di destra Farefuturo, presieduta proprio da Urso. Le cronache ricordano una militanza di Ferranti già ai tempi del Fronte della Gioventù, poi in quota An, socio in affari del ministro Andrea Ronchi, inizialmente vicino a Gianfranco Fini, poi ricollocatosi al fianco di Ignazio La Russa. Una lunga carriera nelle società pubbliche, prima in Lombardia col ciellino Roberto Formigoni per la gestione di società informatiche, poi a Roma in Consip, successivamente in Sviluppo Italia e all’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato spa. Fu Ferranti, vent’anni fa, che da amministratore di Sviluppo Italia soccorse con 10 milioni di euro – soldi pubblici, ovviamente – una società satellite del gruppo La Cascina, ciellina, guidata da Camillo Aceto, che oggi fa la parte del leone nella gestione delle strutture di accoglienza per migranti, fra cui il controverso centro in Albania.
Ora Ferranti è tornato a lavorare al fianco di Urso, ma stavolta le società coinvolte non sono private, bensì pubbliche. Dri ha un ruolo centrale nel futuro dell’Ilva: viene battezzata dall’allora vertice di Invitalia, Domenico Arcuri, nel secondo governo Conte. Ha una dotazione di 35 milioni e 8 poltrone. Da allora, l’unica cosa che è riuscita a fare è perdere un contenzioso contro la società friulana Danieli, la quale lamentava un’ingiusta assegnazione all’impresa Paul Wurth per la realizzazione dell’impianto di preriduzione che dovrebbe servire sia l’ex Ilva, sia gli acciaieri del Nord per produrre acciaio usando il preridotto. Il consiglio di Stato ha dato ragione a Danieli e, per questo, il bando di gara per il preridotto va rifatto daccapo.
Fino a pochi mesi fa a dirigere Dri Italia c’erano il boiardo di stato Franco Bernabè e Stefano Cao che, nonostante l’improduttività della società, non hanno badato a spese. In due anni il capitale è passato da 35 a 24 milioni. A fine 2024 le disponibilità liquide si sono ridotte a 10,5 milioni, mentre 12,7 milioni sono stati investiti nella «predisposizione della documentazione tecnica», si legge nel bilancio. Altri soldi se ne sono andati per la sede meneghina. E se il valore della produzione è pari a un euro, i costi equivalgono a 4,7 milioni, di cui 1,8 milioni per pagare i 9 dipendenti (un impiegato, 4 quadri e 4 dirigenti) e altri 2,1 milioni sfumati in servizi. Si arriva così a una perdita, prima delle imposte, di 4,5 milioni. Che si aggiunge ai 5,4 milioni persi nel 2023, quando i costi per servizi erano 3,7 milioni, più 2,1 milioni per il personale. Alla voce servizi figura il compenso degli amministratori (mezzo milione), le consulenze (1,7 milioni nel 2023 e 435mila euro nel 2024), collaborazioni per un valore di quasi 400mila euro, prestazioni legali e notarili per 137mila euro e così via.
Spese che Dri può sostenere perché ha un polmone finanziario da un miliardo di euro. Inizialmente il piano prevedeva di ripulire la produzione di acciaio con il preridotto, sfruttando il Pnrr: quindi il miliardo l’avrebbe pagato l’Europa. Ma poiché il piano era parecchio improbabile, il governo Meloni ha pensato di levare quel capitolo dal computo Pnrr e inserirlo nei fondi di coesione (sempre europei) 2021-2027. Questo anche perché, in principio, c’era l’idea di alimentare l’impianto di preriduzione a idrogeno, ma si è poi scelto di virare sul meno ecologico metano. Il miliardo servirebbe alla realizzazione di un impianto da 2,5 milioni di tonnellate l’anno di preridotto, che bastano a produrre poco più di 2 milioni di tonnellate di acciaio, ovvero un terzo della quantità minima per portare a break even l’ex Ilva. Dunque, per Taranto servirebbero almeno 3 impianti di preriduzione, più un quarto che – solo in linea teorica – potrebbe essere realizzato a Genova. Quindi, i miliardi necessari per realizzare l’intero complesso sarebbero non meno di due. Ma l’intero progetto è campato per aria. Per esempio, Genova difficilmente potrebbe avere un impianto Dri perché la colonna di preriduzione, alta oltre 100 metri, interferirebbe con gli aerei del (troppo) vicino aeroporto. Ma anche a Taranto, a 3 anni e mezzo dalla nascita della società Dri Italia, non c’è certezza. Si sta ancora discutendo se piazzare di fronte alla città una nave rigassificatrice per alimentare il polo dri – azzerando ogni possibilità di sviluppo alternativo per il porto cittadino – o se far arrivare il gas da Gioia Tauro. Da mesi una commissione discute se collocare il polo di preriduzione a Gioia Tauro oppure all’interno dell’ex Ilva. Domande che per gli esperti sono prive di senso: «Se l’intenzione è realizzare acciaio principalmente da preridotto, gli eventuali impianti di preriduzione devono essere collocati in prossimità dell’acciaieria, perché il materiale prodotto dagli impianti deve essere caricato nei forni elettrici quando è caldo, a una temperatura superiore a 600 gradi. Se i dri e i forni fossero distanti, il preridotto dovrebbe essere nuovamente riscaldato, con significativo spreco di energia. Il caricamento di forni elettrici con preridotto freddo è possibile solo in forni alimentati per lo più a rottame (o nel caso in cui il preridotto sia stato prodotto in Paesi esteri a costi così bassi da compensare i considerevoli incrementi energetici della carica fredda al forno elettrico). Inoltre, se si produce preridotto in un luogo diverso rispetto all’acciaieria, esso deve essere bricchettato per evitare incendi del preridotto durante il trasporto. E questo comporta altri costi», commenta Carlo Mapelli, docente di Siderurgia al Politecnico di Milano. Che spiega: «Le condotte che già collegano Taranto alla rete nazionale del gas sono pressoché sufficienti a garantire l’approvvigionamento di gas all’ex-Ilva».
Esistono altre questioni irrisolte. Il minerale utile a realizzare il preridotto è di gran lunga più pregiato di quello per gli altiforni: «Oggi è difficile procurarsi 2 milioni del minerale per il preridotto sul mercato. Se si volessero produrre 10 milioni di tonnellate di preridotto, ovvero la quantità prevista dai 4 impianti ipotizzati, servirebbero 14 milioni di tonnellate di minerale l’anno. Al momento non c’è alcuna società mineraria in grado di produrne in tali quantità e, anche per il futuro prossimo, gran parte delle quantità è opzionata», dice il professore.
Questa incertezza fa da cornice alla nuova procedura di vendita di Acciaierie d’Italia in As, che si chiuderà il 15 settembre, dopo che il precedente tentativo di cessione è stato un pasticcio: gli azeri di Baku steel si sono dileguati e gli indiani di Vulcan Steel sono rimasti alla finestra. Chi si ripresenterà per acquistare AdI, intera o a pezzi? Il ministro Urso a metà agosto ha fatto sapere che agli imprenditori che acquisiranno l’ex Ilva, «lo Stato offrirà, ove richiesto, il Dri. Ci sarà un tavolo dopo il 15 settembre, quando avremo la consapevolezza dei piani industriali presentati». Insomma, non è neanche così scontato che la decarbonizzazione ci sarà.
E tutto resta arenato sul fronte occupazionale, con il ministero del Lavoro che si prende qualche settimana di tempo per effettuare «più complessive e puntuali valutazioni sulla crisi in atto, sull’utilizzo e sulla consistenza dell’ammortizzatore sociale», ovvero non è scontata l’estensione della cassa integrazione a quattromila degli ottomila dipendenti di Taranto. «Da qualunque parte la si guardi non c’è alcuna garanzia futura. Non c’è certezza per i lavoratori e i cittadini. Non c’è certezza né sull’esistenza né sulla destinazione del polo di Dri. Mancano elementi concreti sulle modalità di approvvigionamento di energia e gas. Manca un piano industriale delineato con i tempi definiti sulla decarbonizzazione. Non c’è nulla», commenta Rocco Palombella, segretario della Uilm. L’unica certezza è l’esborso per il mantenimento della struttura Dri e i costi in crescita per l’amministrazione straordinaria: i tre commissari scelti a inizio 2024 dallo stesso Urso, Giancarlo Quaranta, Giovanni Fiori e Davide Tabarelli solo nell’ultimo trimestre 2024 hanno speso 2,9 milioni in consulenze. L’elenco di avvocati, studi legali, big della consulenza è impressionante, come lo sono i relativi compensi. La parcella record spetta agli avvocati Francesco Grieco e Carlo Cicala: 1.286.101 euro. A Bcg sono andati 927mila euro, a McKinsey un gettone da 488mila euro, a Bdo 724mila e 497 mila euro per lo studio Bonelli Erede. Nel 2025 il fiume di denaro non si è arrestato. Anzi.
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