Economia
2 settembre, 2025L’Europa si prepara all’integrazione di risparmi e investimenti tra i Paesi. Per trovare nuove risorse con cui finanziare riarmo e transizione. Ma non mancano le criticità
E se fosse la volta buona?», avrebbe detto Nino Manfredi. Come in un antico sketch del compianto attore ciociaro, il quadro europeo sta così radicalmente e rapidamente cambiando che le tessere del puzzle potrebbero stavolta finire al posto giusto. La “Savings and Investment Union”, l’unione del mercato dei risparmi e degli investimenti con la trasformazione dei primi (i risparmi) negli investimenti necessari alla crescita, è a portata di mano. Sono da finanziare la decarbonizzazione, affrontare sfide della portata dell’intelligenza artificiale, migliorare la competitività, ridurre la dipendenza dall’America in termini di sicurezza finanziando il riarmo, chiudere il divario tecnologico: sono così tanti i motivi che l’acronimo “Siu” è il titolo di una direttiva che la Commissione di Bruxelles varerà nel quarto trimestre di quest’anno. Per ora c’è l’iniziativa lanciata in primavera, appena iniziato il secondo mandato di Ursula von der Leyen, a cui ha fatto seguito la “call for evidence” durante la quale decine di istituzioni europee, dalle banche fino agli studi legali internazionali, hanno dato il loro contributo di idee ed emendamenti al progetto. La “call” si è chiusa alla mezzanotte del 5 giugno, dopodiché negli uffici di Palazzo Berlaymont è cominciato il meticoloso lavoro di analisi che non si è interrotto neanche nella pausa agostana, in modo da distillare un corpus legislativo in tempo per la scadenza di ottobre.
Obiettivo: creare un mercato dei capitali forte e liquido in grado di canalizzare verso investimenti produttivi una massa di almeno 8 trilioni (8mila miliardi di euro) che oggi, stando ai calcoli resi pubblici dalla stessa presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde, giacciono inattivi nei depositi bancari a zero (o quasi) interessi. Otto trilioni, ha chiarito la Bce, è una cifra realistica, pari alla metà dei risparmi degli europei che superano i 16 trilioni, quattro volte più dei risparmi degli americani. Sarebbero fondi immediatamente mobilizzabili con uno strumento, appunto la Siu, in grado di assicurare adeguati rendimenti e facilità di liquidazione.
Non è il primo tentativo. «Un’iniziativa analoga, la creazione di un mercato unico dei capitali, fu lanciata nel 2015 dall’allora presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e poi reiterata più volte senza successo», spiega Marco Buti, dal 2008 al 2019 direttore degli Affari economici dell’Ue e poi per cinque anni capo staff del commissario all’economia Paolo Gentiloni. «Già allora era chiaro il vantaggio dell’America nel disporre di venture capital, un mercato azionario efficace, fondi di private equity, tutti al servizio di uno sviluppo dinamico e duraturo. Ora servirebbe uno strappo di volontà politica, magari condotto da una personalità forte e trainante come furono Helmut Kohl e Francois Mitterrand per la creazione dell’euro, e prima ancora Margaret Thatcher per il mercato comune». Il problema, riflette Buti, oltre alle ritrosie nazionali nel cedere scampoli di sovranità, affonda le sue radici nella crisi finanziaria mondiale del 2008, su cui si è incardinata subito dopo la crisi dell’euro. «Le riforme varate in risposta dall’Europa sono state improntate alla stabilità finanziaria e al rigore nei controlli, e tale orientamento rimane tutt’ora. Negli Stati Uniti, invece, a costo di affrontare crisi violente, è rimasta una cultura del rischio e dell’avventura finanziaria che sul lungo termine risulta vincente. Si tratta di trovare un giusto equilibrio fra queste due concezioni».
Non mancano gli ottimisti. «Questa volta sono convinto che sia diverso: l’aver ridenominato il progetto in “Unione del risparmio e degli investimenti” non è solo un “rebranding” cosmetico ma un cambiamento significativo», ha detto al Financial Times Vincent Mortier, capo degli investimenti di Amundi, il maggior gestore europeo di risparmio con 2,2 trilioni di patrimonio. «La volontà convergente di Bce ed esecutivo comunitario è rassicurante per assicurare un futuro economico all’Europa». Gli obiettivi finanziari si intersecano con il nuovo “standing”, la nuova posizione autorevole, che l’Europa si sta faticosamente conquistando per tenere a distanza di sicurezza il pensiero di Klemens von Metternich secondo cui (parlava in verità dell’Italia) il pericolo è di rimanere solo un’“espressione geografica”.
«Sono da rivedere e riconciliare un’infinità di norme ben radicate nelle singole legislazioni nazionali e nell’humus culturale dei diversi Paesi», commenta Angelo Baglioni, economista della Cattolica. Si va dagli aspetti riconducibili agli egoismi nazionalistici, fino a dettagli tecnici. «Anche se non si riesce a riformare l’intero sistema, per esempio, si potrebbero armonizzare le leggi sull’insolvenza», ha suggerito Stefane Boujnah, ceo di Euronext che gestisce sette borse nel Continente (compresa Milano). «Già da sola, basterebbe questa riforma a cambiare le regole del gioco attirando gli investitori di tutto il mondo». La Commissione ha inserito quest’aspetto nel progetto complessivo. Oggi le leggi fallimentari sono così diverse che se una piccola azienda va in bancarotta in Grecia, i creditori possono in media aspettarsi di recuperare 5 centesimi per ogni euro: in Lussemburgo, stando a quanto emerso in un recente briefing del Parlamento europeo, possono arrivare a tre quarti dei crediti. E non perché la Grecia sia meno avanzata del Lussemburgo, ma solo perché la legge fallimentare è più tortuosa, penalizzante per i debitori e complessa nelle procedure burocratiche.
Anche l’Italia a questo proposito è arretrata, malgrado si sia più volte tentata una semplificazione, anche dall’attuale governo, senza risultati decisivi. È solo un esempio: senza scardinare il sistema si potrebbero rivedere le norme sul trattamento dei titoli, incluso quello fiscale, con una spinta all’armonizzazione. «È sicuro il vantaggio per gli investimenti internazionali e per la funzione del mercato dei capitali in termini di opportunità di crescita delle aziende», aggiunge Boujnah.
Un aspetto solo apparentemente marginale riguarda le cartolarizzazioni, la pratica di impacchettare prestiti e altre voci dell’attivo in titoli da piazzare sul mercato a sconto. Un tempo era uno strumento molto utilizzato (i famosi “non performing loans” delle banche finite male), poi dopo la crisi finanziaria del 2009-10 le autorità europee hanno deciso una stretta che però oggi è diventata controproducente. Le emissioni di prodotti cartolarizzati sono pari allo 0,3 per cento del Pil dell’Ue, mentre in America si supera il 4 per cento e due agenzie pubbliche, Fannie Mae e Freddie Mac, per ora salve dalla furia iconoclasta di Donald Trump, inondano il mercato con miliardi di dollari di obbligazioni derivanti da mutui immobiliari ammalorati, usate per investimenti produttivi. La Commissione, nei lavori preparatori per la direttiva che seguono le indicazioni del Rapporto di Mario Draghi, vorrebbe ridurre il carico regolatorio sulle emissioni, «introducendo una componente di rischio nel sistema senza compromettere la stabilità finanziaria», si legge nelle carte di Bruxelles. Ancora altre sono le innovazioni proposte nella “call” con cui si chiedevano idee, pubblicate con trasparenza sui siti dell’Ue. Si vedrà se riprenderle nella direttiva. Fra queste, l’ampliamento delle funzioni della Banca europea degli investimenti, che ha sede nel Lussemburgo e potrebbe intraprendere attività a rischio tipo il venture capital con cui finanziare le startup. Un percorso peraltro avviato in Italia dalla Cdp (che ha creato una divisione per gli investimenti nell’hi-tech utilizzando il risparmio postale) e da analoghe istituzioni pubbliche come la francese Caisse des dépôts et consignations e l’Instituto de Crédito Oficial spagnolo. Altra proposta su cui si discute è quella di assegnare alla Bce, sul modello della Federal Reserve, il potenziamento dell’occupazione oltre al controllo sull’inflazione. Qui le perplessità sono diffuse: «Non è opportuno quest’ampliamento che renderebbe ancora più difficile il lavoro della banca centrale, sottoposta a ulteriori sollecitazioni con diverse priorità sul vasto fronte inflazione-crescita», spiega l’economista Wolfgang Munchau del think-tank Eurointelligence. «Comunque non farebbe una gran differenza perché di fatto entrambe le banche centrali perseguono già lo stesso obiettivo della stabilità finanziaria complessiva».
L’insidia sottesa a tutte queste idee è di fondo: «Fra i polmoni finanziari cui attingere oltre ai depositi bancari ci sono le risorse del welfare state. Ma sarebbe una riforma così profonda da mettere a rischio il contratto sociale cui sono improntate le società europee», commenta Daniela Gabor, economista della Soas University di Londra. «Le infrastrutture pubbliche, dagli ospedali alle scuole, se ci si incammina verso la privatizzazione verrebbero trasformate in voci dell’attivo. Mettendo sul mercato i rispettivi valori si crea una fonte di liquidità, ma l’Europa è pronta per tale trasformazione?» Una domanda quasi imbarazzante per la sua complessità, ma il modello americano è quello. Risparmi e beni pubblici convertiti in obbligazioni, fonti di liquidità per finanziare l’innovazione. La risposta è ovviamente tutt’altro che scontata.
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