Economia
25 settembre, 2025Il mercato cresce più dello streaming, anche se ha volumi decisamente minori. Gli esperti: un modo per sottrarsi alla dittatura dell’algoritmo e a musica
Milan Kundera le chiamava «le pozzanghere della musica». Quelle di sottofondo, che sentiamo senza pensarci. Al supermercato, in ufficio, ovunque. Musica senz’anima, dove si fatica a riconoscere un autore, e che comunque resta appiccicata addosso. Come acqua sporca. Al famoso scrittore, autore dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, morto nel 2023 è stato risparmiato assistere all’estremo esito attuale. «Su Instagram, Tiktok, la musica è ridotta a background anonimo del nostro scrolling, così come i film sono degradati a spezzoni», dice Davide Bennato, sociologo all’università di Messina, pioniere degli studi sul digitale. Tratta questi temi anche ne La società del XXI secolo (Laterza, 2024). «E adesso – aggiunge – nemmeno è possibile essere sicuri che ci sia dietro un essere umano, dato che i contenuti generati dall’intelligenza artificiale sono sempre più dominanti».
C’è poi pure il sospetto che certe piattaforme abbiamo regolato gli algoritmi per raccomandarci soprattutto quel tipo di musica, dove pagano meno in diritti d’autore, come rivelato riguardo a Spotify dalla nota giornalista musicale Liz Perry nel bestseller Mood Machine (gennaio 2025). Ma per fortuna «vediamo nascere ora i primi anticorpi, a questa deriva artificiale, algoritmica», aggiunge Bennato.
Un segnale: le persone, in Europa e Stati Uniti, tornano a comprare album in supporti fisici. Da possedere e ascoltare dall’inizio alla fine, come si faceva un tempo. Non solo vinili, però, che già da vent’anni sono tornati in auge; soprattutto per collezionismo o nostalgia. Sono di nuovo in voga infatti anche i cd e persino musicassette. Il boom del vinile accelera, inoltre, segno forse che dietro c’è qualcosa di più profondo.
«Il fenomeno è evidente anche in Italia, come risulta dagli ultimi dati che abbiamo appena pubblicato», dice Enzo Mazza, presidente della Federazione industria musicale italiana. Nel primo trimestre 2025, rispetto al primo del 2024, sono cresciute moltissimo le vendite dei vinili (+17%), ma anche delle musicassette: +10,7 per cento. I cd sono al più 4,7 per cento. In tutto, i ricavi della musica fisica sono cresciuti del 13 per cento (a 33 milioni di euro), meglio dello streaming (+9,9 per cento), che comunque vale circa cinque volte di più.
Gli appassionati di musica sono contenti. Un musicista anglo italiano, Jack Savoretti è un grande sostenitore del “fisico” e lo considera una reazione alla tirannia dello streaming. Tanto che compara il fenomeno alla nascita del movimento slow food negli anni ’80 in Italia. «Si può spiegare con il bisogno di controllare la nostra fruizione artistica – musica, ma anche film, libri», dice Bennato. «Lo vediamo soprattutto nei giovani della generazione Z, i miei studenti che ora affollano i mercatini dell’usato – aggiunge. Hanno capito che lo streaming è comodo, come anche gli e-book Kindle di Amazon. Ma non equivale a possedere davvero quell’opera. Non è possibile sentirla propria, così». Primo, è vero sul piano pratico materiale, perché «la piattaforma può decidere da un momento all’altro di eliminare dal servizio ciò a cui ti eri affezionato». Secondo, a un livello più profondo, cresce il bisogno di autonomia e controllo anche rispetto agli algoritmi di raccomandazione. Sistemi che suggeriscono cosa ascoltare e vedere. In modo opaco, spesso. Con il risultato, tra l’altro, di influenzare pian piano e in modo invisibile i nostri gusti.
Il libro di Perry ha svelato proprio questo: Spotify, spinta dai bilanci in perdita, ha comprato in blocco musica stock, su cui paga molti meno diritti rispetto ai brani delle major. Ha poi cominciato a promuoverla nelle playlist e nelle raccomandazioni. È musica asettica, di background, creata al computer da artisti senza nome; molti dei quali preferiscono l’anonimato per vergogna, come dicono nelle interviste date a Perry per il libro. Patiscono di avere contribuito, per pochi soldi e spinti da necessità economiche, ad alimentare un sistema che danneggia la musica. Gli algoritmi – nota Perry – penalizzano la diffusione della vera musica e, in un circolo vizioso, appiattiscono i gusti degli ascoltatori. Assecondano la tendenza – o la pigrizia – sempre più diffusa ad ascoltare musica anonima di background. Al tempo stesso, «adesso, a causa degli algoritmi dei social e dello streaming che ci raccomandano cose simili a ciò che è già piaciuto, è più difficile essere esposti al diverso. Per esempio a un autore emergente innovativo, sperimentale, disallineato dai nostri ascolti precedenti», nota Bennato. «Prima invece si scoprivano novità inattese grazie a riviste, a visite nei negozi di dischi. Agli amici».
L’Ia sta accelerando il fenomeno. Molta della musica ascoltata passivamente in streaming è fatta ormai così. Una canzone su cinque, su Deezer, è fatta con Ia e Spotify, secondo varie stime, si aggira su cifre simili. Nascono anche band tutte Ia. The Velvet Sundown quest’anno ha già totalizzato milioni di stream dopo essere stata inserita in diverse playlist di Spotify.
La speranza è affidata alla svolta in corso. Alla «crescente voglia nei giovani di costruirsi una cultura del gusto anche tramite possesso fisico», dice Bennato. E chissà se non siano le braci di una rivoluzione più radicale. Il ritorno al fisico non sembra rifiuto del digitale tout court, ma ricerca di alternative all’attuale modello digitale. «Quello dove poche piattaforme dettano legge e concentrano a sé tutto il valore. È a questo che davvero bisogna ribellarsi», nota il filosofo Maurizio Ferraris (Università di Torino). A ottobre il suo nuovo libro: Comunismo digitale (Einaudi).
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