Editoriale
Non passeranno
L’Italia democratica manifesta con la Cgil contro lo squadrismo fascista. Ma non basta l’indignazione. Domani servirà costruire una risposta nella società, nella politica, nella cultura
No Pasarán. Tocca ripetere, lo facciamo in copertina con spirito di militanza e con la giusta dose di ironia che in questa cupezza non guasta, lo slogan anti-fascista di novanta anni fa, in questo fine settimana che vede la manifestazione della Cgil, l’obbligo di green pass per i lavoratori pubblici e privati, il secondo turno dei ballottaggi per le città, con la finale di Roma tra il civico di centrodestra Enrico Michetti e l’ex ministro Pd Roberto Gualtieri.
Non passeranno: i fascisti, i devastatori della sede del sindacato che è stato di Giuseppe Di Vittorio, Luciano Lama, Bruno Trentin, Guglielmo Epifani. Chi voleva dare l’assalto alle sedi delle istituzioni, Montecitorio e Palazzo Chigi. Li conosciamo bene. Conosciamo bene lo squadrismo e la violenza. Il 6 dicembre 2017 alcuni militanti di Forza Nuova a viso coperto entrarono nella sede dell’Espresso e di Repubblica in via Cristoforo Colombo con striscioni e fumogeni. Non era un’azione generica, il green pass non c’entrava nulla perché all’epoca il Covid-19 e la pandemia mondiale erano una fantasia distopica, protestavano contro il nostro lavoro, ce l’avevano con le nostre inchieste che avevano rivelato i rapporti economici e internazionali di Forza Nuova e di CasaPound. Il 7 gennaio 2019 due cronisti dell’Espresso furono aggrediti, malmenati e privati delle loro attrezzature di lavoro al cimitero del Verano dove Forza Nuova aveva inscenato una manifestazione in ricordo dei militanti di destra uccisi nella sezione Msi di via Acca Larentia nel 1978. Per quella aggressione Giuliano Castellino è stato condannato in primo grado a cinque anni e mezzo.
Volevano intimidirci, non ci sono riusciti. Ripetiamolo, in questi giorni di discussione sullo scioglimento di Forza Nuova. Castellino, Roberto Fiore e, sul versante opposto dell’estremismo nero, Casa Pound, non sono schegge impazzite. Sono personaggi, gruppi, partiti che hanno una lunga storia, una presenza istituzionale, un rapporto antico con i partiti della destra che sono ancora in testa nei sondaggi e che si candidano a guidare il Paese. CasaPound partecipò dal palco alla manifestazione nazionale della Lega di Matteo Salvini il 28 febbraio 2015 in piazza del Popolo, con un corteo che scese da Villa Borghese con le bandiere che raffiguravano tre spighe di grano sotto la scritta Sovranità. Era l’atto di fondazione della nuova Lega di Salvini, non più padana ma sovranista e nazionalista. Fiore è stato eurodeputato con la lista di Alessandra Mussolini e nel 2006 per poco non fu candidato alla Camera in alleanza con il centrodestra e con Silvio Berlusconi. A bloccarlo furono Pier Ferdinando Casini e soprattutto Gianfranco Fini, l’ex segretario del Msi, diventato leader di Alleanza nazionale.
Castellino nel 2013 si candidò al Comune, nella lista di Francesco Storace, in appoggio del sindaco uscente Gianni Alemanno (raccogliendo 473 miseri voti di preferenza), dopo averlo sostenuto per anni con il suo gruppo (Il Popolo di Roma). Nella stessa veste accompagnava Giorgia Meloni, ministra nel governo Berlusconi, alle commemorazioni di Acca Larentia. Basta? No, non basta perché Forza Nuova, fino a poche settimane fa, era nel palazzo di via Paisiello in cui ha sede la fondazione di Alleanza nazionale, nella sede occupata del Secolo d’Italia diretto da Storace.
Difficile per Meloni e Salvini considerare questi personaggi come gli Hyksos, gli sconosciuti invasori venuti dal nulla. Stupefacente, però, che non li trattino ora come dovrebbero fare: parenti scomodi da cui affrettarsi a prendere le distanze, i loro peggiori nemici sulla strada della piena legittimazione a candidarsi alla guida del Paese. E lasciamo perdere il Salvini in confusione degli ultimi mesi: la sua occasione l’ha già avuta e forse l’ha già persa, il suo partito è nel governo Draghi mentre il leader si aggira in crisi di identità e di consensi.
Incomprensibile è Meloni, leader dell’unico partito di opposizione e in testa nei sondaggi. Nessuno mette in dubbio la sua legittimità democratica, per aver provato a escluderla dall’arco politico il vice-segretario del Pd Peppe Provenzano è stato redarguito e costretto a smentire se stesso, ma se vuole candidarsi alle prossime elezioni al governo dovrebbe avvertire come una minaccia mortale la presenza nei suoi dintorni di personaggi che potevi frequentare quando eri un partitino di opposizione, ma non certo ora.
La reazione è arrivata, tardiva, nel pomeriggio del 13 ottobre. Durante il dibattito alla Camera Meloni ha rovesciato sulla ministra dell’Interno, la prefettizia Luciana Lamorgese, l’accusa di «strategia della tensione»: «Quello che è accaduto è stato volutamente permesso. È stato calcolo, siamo tornati agli anni bui della Repubblica». La dimostrazione che la leader di FdI, se vuole, è dotata di buona memoria. Ma allora dovrebbe ricordare che in quegli anni bui tra i giovani militanti di destra veniva arruolata la manovalanza criminale per il terrorismo nero e per le stragi. E che i generali dei servizi finivano ricompensati con un seggio da senatore nel Msi, da Giovanni De Lorenzo a Vito Miceli.
Non è solo un problema di Fratelli d’Italia o di Giorgia Meloni, ma riguarda tutti. Perché una destra impossibilitata a rappresentare una reale alternativa di governo crea automaticamente una area di governo inamovibile, quella che più o meno sostiene il governo Draghi. E paralizza la fisiologia democratica del sistema, messo di fronte al dilemma del diavolo: o la vittoria di una destra sovranista modello Trump, Ungheria, Polonia, oppure la necessità di un’alleanza di governo, inevitabile e senza possibilità di ricambio e di confronto. Lo stato di emergenza che diventa stato di eccezione denunciato da Massimo Cacciari.
Ai leader della destra italiana è dedicato l’ultimo numero della rivista Il Mulino (3/2021). Una destra, scrive Alessandro Campi, «culturalmente e psicologicamente individualista (senza per questo essere divenuta liberale); ossessionata dalla comunicazione istantanea e dal martellamento propagandistico; completamente appiattita sull’immagine pubblica del leader-capo divenuto esso stesso - con i suoi gesti e le sue parole - l’ideologia o cultura politica di riferimento esclusiva del partito di cui è il dominus (…). una destra pulsionale, disinteressata al dibattito delle idee, protestataria e latamente sovversiva, irrealistica e sommaria nei suoi proponimenti». La vicenda del no al green pass è la sintesi di questa destra: chiede più Stato per chiudere i porti ma cavalca l’anarchismo, la distruzione di ciò che è pubblico.
È questa destra che definisce il perimetro del governo futuro, nella prossima legislatura, forse dopo che Mario Draghi si sarà trasferito al Quirinale, ora che anche Salvini gli assegna il ruolo di pacificatore nazionale. È la nascita di un nuovo bipolarismo imperfetto. Quando il politologo Giorgio Galli inventò questa formula eravamo nel pieno della guerra fredda e del fattore K, la logica di Jalta che impediva al Pci di candidarsi credibilmente a guidare l’alternativa alla Dc. E la Dc era condannata, per così dire, a restare sempre al governo. Oggi il fattore S inchioda Salvini a stare metà al governo e metà in piazza e Meloni nei panni dell’oppositrice di comodo. La leader di Fratelli d’Italia attacca la sinistra che si sceglie gli estremisti di destra come «utili idioti», funzionali a mantenere il potere, ma non si rende conto che in assenza di uno strappo dalla matrice originaria questa parte rischia di svolgerla lei. Un rischio per tutti: perché la democrazia muore per mancanza di alternative, come ha intuito il segretario del Pd Enrico Letta quando disse che il suo partito non poteva stare al potere per uno stato di necessità.
La democrazia italiana non può permettersi partiti, sindacati, giornali, intellettuali condannati a restare a ogni costo nell’area del governo, perché fuori da quell’area l’alternativa sono i fascisti cattivi. Se questa è la dialettica, si spegne la possibilità del dibattito, del pensiero critico, della crescita e maturazione. L’evoluzione della destra politica e parlamentare è un interesse di tutti.
No Pasarán, lo diremo ancora. Ma una volta che lo abbiamo ripetuto dobbiamo capire. Non possiamo accontentarci di partecipare alle manifestazioni e di reclamare scioglimenti. La razzia alla sede nazionale Cgil indigna, ma ancora più inquieta la successiva irruzione notturna nel pronto soccorso del Policlinico di Roma con le percosse contro medici e infermieri. Qui c’è il vero fallimento politico di Salvini e Meloni: sono incapaci di rappresentare nelle sedi istituzionali, parlamentari o di governo, le istanze di quella parte del Paese che può essere legittimamente spaventata dall’introduzione del green pass, al contrario inseguono le piazze in ogni pulsione ribellistica contro lo Stato. Ma se l’assalto alla Cgil ci fa tornare al 1921 e a terminologie del Novecento, l’attacco al Policlinico ci trascina nel 2021 dei complottismi e delle nuove paure. I no vax, il no al green pass sono un pretesto. I soggetti della destra estrema che quando si contano nelle urne si rivelano minoritari, se non insignificanti, offrono un’ideologia e una parvenza di organizzazione a una parte di società che intercetta umori tutt’altro che irrilevanti, come dimostra l’astensionismo nelle grandi città alle elezioni amministrative.
In questo deserto di cultura, di pensiero, di rappresentanza si agitano molte pulsioni: la mancanza di riconoscimento, la solitudine che è l’altra faccia dei social, un orizzonte chiuso. E anche la possibilità di un progetto politico. A coprire il vuoto sono i mediatori di cui ha parlato il regista Leonardo Di Costanzo presentando qualche giorno fa il suo film “Ariaferma”, interpretato da Toni Servillo e da Silvio Orlando, nel teatro del carcere romano di Rebibbia con la ministra della Giustizia Marta Cartabia. I mediatori, come gli educatori, gli operatori sociali. E le infrastrutture sociali: i sindacati, i partiti. Tra i mediatori ci siamo anche noi. Il Nobel per la pace 2021 è stato assegnato a due giornalisti, la filippina Maria Ressa e il russo Dmitry Muratov.
Maria Ressa, intervistata da Francesca Mannocchi per l’Espresso tre anni fa (23 dicembre 2018), ci ha aiutato a fare un passo in avanti. «Non è un momento facile per fare il nostro lavoro, ma è forse quello in cui ha più senso farlo, perché oggi i nostri valori e la nostra missione sono più chiari. La tecnologia non ha morale e non ha valori: e i leader autoritari hanno capito come sfruttare questa mancanza di etica. Il senso del giornalismo è sempre stato fare domande, è il solo modo di accreditarci e costruire fiducia verso chi ci legge e chi ci ascolta. Il potere dovrebbe rispondere alle nostre domande. Oggi invece risponde militarizzando i social media».
No Pasarán, ce lo ripetiamo oggi. Ma poi dovremo evitare che sia uno stanco rito. E continuare a interrogarci sull’assenza dei sindacati, sulla debolezza dei partiti, sul conformismo degli intellettuali, sulla fragilità della democrazia rappresentativa in Europa e in Italia. È il nostro modo di essere autenticamente anti-fascisti, sempre.