Nella cerimonia degli addii cominciata da settimane, il discorso che Sergio Mattarella ha dedicato a Giovanni Leone occupa un posto particolare. Il capo dello Stato in carica ha utilizzato questa occasione per difendere il suo predecessore, il sesto presidente, dal 1971 al 1978, a distanza di venti anni dalla morte e da più di quaranta dalle dimissioni, che Mattarella ha attribuito a una campagna di stampa «invereconda». In realtà, più che dalle manifestazioni del partito radicale, dal libro di Camilla Cederna e dagli articoli di Gigi Melega e dalle copertine di Tullio Pericoli sull’Espresso, Leone fu spinto a lasciare dal suo partito, la Dc, e dal Pci che gli impedirono nelle ore immediatamente precedenti addirittura di rendere pubblica un’intervista già rilasciata all’Ansa, in cui il presidente provava a difendersi dalle accuse. «Leone ci accoglie con serenità, ma con palese amarezza: “Venite a sfrattarmi”», annotò il presidente del Consiglio Giulio Andreotti sul suo diario. Lo costrinsero a fare il trasloco dal Quirinale in poche ore.
C’era una maggioranza di unità nazionale, anche in quel caso, già agonizzante dopo l’omicidio di Aldo Moro, un mese prima. E i partiti dell’epoca fecero a gara per chiedere al presidente di andarsene, come agnello sacrificale di una sconfitta politica. Oggi, al contrario, sono in pressing su Mattarella per chiedergli di restare. Una richiesta destinata a essere delusa. Il no alla rielezione di Mattarella è motivato da una solidissima ragione costituzionale: non si trasforma la presidenza della Repubblica in una monarchia e non si sottopone a trattative e mercanteggiamenti la durata di sette anni del mandato presidenziale, una delle garanzie dell’indipendenza del capo dello Stato dalla maggioranza che lo ha eletto.
Nei palazzi risulta che qualche candidato, tra i più accreditati, stia assicurando ai partiti che in caso di elezione si atterrà a un mandato di transizione, due o tre anni e poi via, ma certamente non è questo il pensiero di Mattarella. E l’incognita sul nome del prossimo inquilino del Quirinale, a sessanta giorni ormai dall’inizio delle votazioni, rende nervosi i capi dei partiti e sottopone a stress l’intero società politica. «Nella vita di ogni comunità si manifestano momenti di difficoltà, di incomprensione, di stallo, in cui la nave sembra rifiutarsi di proseguire, le macchine paiono smettere di funzionare. Questo, naturalmente, applicato alla vicenda politica può portare a conseguenze imprevedibili», ha detto Mattarella nella sua commemorazione di Leone. «Entrano in campo allora le forze della saggezza e della conciliazione per riannodare il dialogo, per far proseguire il cammino, per aprire nuovi orizzonti».
Il 2 febbraio 2021 le macchine sono state riavviate con l’iniziativa del presidente di affidare la guida del governo a Mario Draghi. Una scelta che è sembrata improvvisa, ma è stata a lungo meditata. La nave Italia si era incagliata in acque pericolose, in mezzo alla tempesta della pandemia e con il rischio di non riuscire a presentare il Piano per ricevere i fondi europei previsti da Next Generation Eu.
A distanza di nove mesi, l’emergenza sanitaria che in troppi hanno considerato conclusa ritorna a preoccupare, con il riaccendersi dei contagi e il revival delle cartine a colori delle regioni italiane, nonostante i vaccini. E la realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr, cui è stato affidato il cambiamento delle strutture del Paese nei prossimi anni, dalla transizione ecologica alla digitalizzazione alle infrastrutture, conosce un momento di impasse, come raccontano Antonio Fraschilla e Carlo Tecce nella nostra inchiesta di copertina.
Per il governo Draghi è il momento del Piano Inclinato, il più carico di ostacoli, il più difficile da passare. Al capo del governo è stato affidato ogni potere e tutte le responsabilità: dalle grandi riforme di struttura alla nomina dei direttori dei Tg Rai. Ma Draghi è il presidente di Sistema in un sistema che non c’è. Oggi, in gran parte, le forze economiche, finanziarie, internazionali, gli chiedono di continuare a restare a Palazzo Chigi. Un pressing asfissiante, che unisce i più loquaci diplomatici americani al capo della più importante banca del Paese ad alcuni settori del mondo cattolico e che trovano sponde e referenti in un mondo politico sbandato. Quelli che un tempo si sarebbero chiamati poteri forti, curiosamente, stanno sbarrando a Draghi la possibilità di andare al Quirinale o almeno la facoltà di scegliere. E non si rendono conto che, in questo modo, finiscono per indebolire anche la sua premiership di governo. Come dice in privato icasticamente Giorgia Meloni: «Lo stanno a frega’!».
Proseguire con il governo Draghi, congelando Mattarella al Quirinale per un secondo mandato di breve durata, sarebbe stata la soluzione più ragionevole, è stato il mantra di questi mesi. Ma era un modo per non scegliere, o meglio per perpetuare l’emergenza. Il no di Mattarella a una sua rielezione serve a eliminare ogni ambiguità e a togliere ogni alibi ai partiti: nessuno, a partire dal Pd e da Giuseppe Conte con M5S, ma anche la destra, può coprire il proprio immobilismo e le sue divisioni interne mettendo a rischio l’unica istituzione italiana che è rimasta integra in questi decenni di transizione e di follia politica.
La seconda soluzione escogitata dal sistema che non c’è è quella dichiarata dal ministro leghista Giancarlo Giorgetti: Draghi al Quirinale per instaurare un semi-presidenzialismo alla francese, di fatto. Ma messa così sarebbe una forzatura, uno sbrego costituzionale, secondo le lezioni che Gianfranco Miglio impartiva trent’anni fa al fondatore della Lega Umberto Bossi, il primo e forse unico capo di Giorgetti.
Esiste un’altra via, strettissima. Un accordo tra tutti i partiti, compresa l’opposizione di Fratelli d’Italia di Meloni, per portare Draghi al Quirinale come garante della trasformazione del sistema, nel senso di un percorso realistico di riforme politiche da scrivere nell’ultimo anno prima delle elezioni politiche, con uno più ambizioso da consegnare alla legislatura successiva. Un accordo su un Pnrr politico e istituzionale, senza il quale neppure il progetto di spesa dei fondi europei può funzionare. Il ridisegno delle funzioni dello Stato su tre fronti.
Scegliere tra il parlamentarismo o il presidenzialismo. Negli ultimi tre decenni il sistema si è contorto in questo dilemma per poi spegnersi in un nulla di fatto. Presidenzialisti, a loro modo, sono stati Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, ma le loro riforme della Costituzione non contenevano in modo esplicito l’elezione diretta del capo del governo e sono state bocciate dagli italiani con due referendum. Catastrofica la sconfitta di Renzi in quel 2016 annus horribilis dell’ex sindaco di Firenze arrivato a Palazzo Chigi neppure quarantenne, quando tutto - l’attività di governo, la vita interna del Pd, i patti territoriali con le regioni, i finanziamenti, l’occupazione della Rai, la consegna del Campidoglio al Movimento 5 Stelle - tutto ma proprio tutto fu piegato alla volontà renziana di vincere il referendum del 4 dicembre di cinque anni fa. Finì con un plebiscito di segno opposto.
Nell’inchiesta sulla fondazione Open colpisce come appena poche settimane dopo quel rovescio Renzi, invece di lasciare la politica come aveva promesso di fare in caso di sconfitta, si era infilato in una trama per far cadere il governo di Paolo Gentiloni, appena nominato, e per attaccare gli avversari politici, con i consigli forniti dal giornalista Fabrizio Rondolino. Quei consigli nauseanti parlano di dossier da commissionare a investigatori privati assoldati allo scopo, difficile immaginare che siano stati soltanto consigli non richiesti, non sollecitati da nessuno. Bocciato il presidenzialismo, però, non è stato neppure rimesso in sesto il Parlamento.
In questa legislatura, con il Movimento 5 Stelle primo gruppo alla Camera e al Senato dopo il successo alle elezioni del 2018, il Parlamento si è spento e ha votato una riforma costituzionale per mutilarsi nei suoi componenti, approvata dal voto popolare nel 2020. Anche il Pd di Nicola Zingaretti, all’ultima delle quattro votazioni, pagò il suo tributo al sostegno del governo Conte 2 accettando il taglio dei parlamentari. Un sì condizionato all’approvazione di una nuova legge elettorale adeguata: ma anche di quella si sono perse le tracce. Dal 1993 in poi gli italiani hanno votato con tre leggi elettorali diverse, una è stata approvata dal Parlamento ma subito bocciata dalla Corte costituzionale, una situazione di incertezza sul meccanismo più importante e delicato della vita democratica, il modo di esprimere il voto, che non conosce paragoni in Europa.
Il secondo fronte è il ridisegno del rapporto tra il potere centrale e le regioni. Uscito sfibrato da decenni di riforme a metà, il titolo V, il federalismo, l’autonomia, il potere centrale si è ridotto a regolatore di regioni che si muovono come staterelli paralleli. Una dinamica centrifuga che l’autorevolezza dell’attuale premier è riuscita a contenere, con l’attribuzione dei pieni poteri sulla campagna vaccinale al generale Francesco Paolo Figliuolo, ma che è pronta a riesplodere.
Il terzo nodo da sciogliere è il rapporto tra lo Stato nazionale e l’Europa. Lo stesso per cui la Polonia minaccia di abbandonare l’Unione, ma che vede anche l’impotenza di Bruxelles ad arginare le spinte nazionalistiche. L’Italia di Draghi, protagonista in Europa, deve agire in modo più incisivo per superare la regola delle decisioni all’unanimità che paralizzano la politica continentale, mentre sulle migrazioni non si trova soluzione migliore che rialzare i muri e i fili spinati contro le bombe umane lanciate dalla Bielorussia. Ma tutto questo si può fare con una chiarezza di indirizzo politico e non con un generico tirare a campare.
La nave Italia, pilotata da troppi timonieri di corte vedute o fin troppo fantasiosi, si è più volte incagliata nello stallo. Una classe dirigente che si percepisce in gran parte precaria e a rischio di estinzione guarda all’appuntamento dell’elezione per il Quirinale come l’all-in, vivere o morire, lasciare o raddoppiare. Non è lo stato d’animo delle scelte serene, in cui si percorre la strada strettissima di un recupero di normalità democratica.