Una lanterna verde da collocare nel presepe di Natale, in ogni presepe d’Italia, l’idea è di padre Ercole Ceriani, parroco della chiesa romana di Santa Maria dei Miracoli in piazza del Popolo, rilanciata da Avvenire, il quotidiano cattolico diretto da Marco Tarquinio che più e meglio di tutti in Italia ha preso posizione sul dramma che si sta consumando alla frontiera tra la Bielorussia e la Polonia, un pezzo di Europa.
La luce verde alla finestra, ne abbiamo parlato su L’Espresso del 31 ottobre con un reportage di Bianca Senatore, è il segnale che in quella casa ci sono famiglie polacche pronte ad accogliere i profughi che hanno passato il confine. Una piccola luce verde nel buio, un segnale di resistenza. Resistere all’indifferenza, al tramonto della solidarietà su cui si è fondata la costruzione europea dopo la seconda guerra mondiale. Una luce verde per testimoniare che un solo confine davvero non si può valicare per chi si batte per l’Europa come unione delle minoranze: il confine tra la realpolitik, che usa i corpi delle persone come proiettili umani e strumento di propaganda, e le ragioni dell’umanità, che si costruiscono volto per volto, persona per persona, quel bambino morto di freddo alla frontiera, di cui non conosciamo il nome e non abbiamo visto il corpo. Così come non conosciamo la storia di chi viene sepolto in terra straniera, come nelle foto di queste pagine, o in mare. Ma il rispetto di quelle vite è la ragione su cui si fonda la costruzione europea, il suo motivo d’essere, la sua anima profonda.
Alessandro Leogrande - ci ha lasciato all’improvviso il 26 novembre di quattro anni fa ad appena quarant’anni - ha scritto che la frontiera è «un termometro del mondo»: «Una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre». La crepa si apre lì dove la storia si era rimessa in movimento, trent’anni fa. La Polonia, nel 1989, anticipò di qualche mese la caduta del muro di Berlino. La Lituania riconquistò la sua indipendenza dall’Unione sovietica nel 1990, nel 1991 aderì alle Nazioni Unite, fu decisiva nel provocare il crollo dell’Impero. Nel 1991 la bandiera rossa venne ammainata dal Cremlino, nel giro di pochi mesi l’Impero sovietico che sembrava destinato a non finire mai venne giù, l’Europa sembrava il destino finale della Grande Russia, con la sua costituzione democratica. Si è pensato che quella bandiera rossa ammainata coincidesse con il trionfo della democrazia, intesa soprattutto come libero mercato e fine della storia, di ogni identità dissonante. E si è ignorato, invece, che la storia preparava un brusco salto all’indietro.
Oggi sugli stessi confini, racconta Federica Bianchi sull’Espresso, si combatte una nuova guerra fredda, con la Russia di Vladimir Putin che fa sentire la sua pressione sulle opinioni pubbliche dell’Europa centrale e orientale già rese isteriche dalla recrudescenza della pandemia. In Romania i cadaveri si ammassano negli obitori e hanno chiamato un generale a fare il premier, in Austria hanno già chiuso gli spazi anche per i vaccinati, nella Germania che non ha ancora il nuovo governo due mesi dopo il voto (ma almeno questo era previsto) si preparano nuove restrizioni per fronteggiare la saturazione delle terapie intensive, la potenziale catastrofe. Il Regno Unito è uscito dall’Unione, ma il premier Boris Johnson è fuori controllo. In Italia il governo Draghi ricorre al super green pass: un segno di preoccupazione.
L’Europa della paura insegue la Russia di Putin nella chiusura delle frontiere, nel filo spinato che ne diventa un simbolo, nella incapacità di fare politica estera: trent’anni dopo le parti si sono invertite. E il presidente russo, beffardo, arriva (lui!) a chiedere conto della violazione dei diritti umani esercitata dai polacchi alla frontiera. Una contraddizione che intrappola Bruxelles. Il governo polacco, fino a poche settimane fa considerato la bestia nera dell’Unione per il mancato rispetto dello Stato di diritto, è ora il bastione cui l’Europa affida il contenimento di duemila disgraziatissimi profughi. Mentre il premier ungherese Viktor Orbán si chiede come mai lui viene sottoposto alla procedura di infrazione europea avendo preso le stesse misure per cui invece la Polonia viene applaudita.
Sull’altra frontiera, quella del Mediterraneo, si prepara la prossima scissione tra propaganda e realtà, come racconta Francesca Mannocchi. La Libia delle intenzioni di Italia e Francia e la Libia reale, dove dieci anni dopo rispunta il fantasma di Gheddafi sotto le sembianze del figlio Saif, candidato alle elezioni presidenziali come il generale Khalifa Haftar e il premier attuale Abdul-Hamid Dbeibah che aveva promesso di fare da garante senza correre in prima persona. Le elezioni della vigilia di Natale, il 24 dicembre, sono lontane dalla pacificazione annunciata, preannunciano altri punti di rottura, altri nodi, altre crepe. La Russia di Putin, con la Turchia di Erdogan, assedia l’Unione alle sue frontiere esterne, dal confine orientale alla sponda africana, con un unico cappio soffoca l’Europa, dal mar Baltico fino al mar Mediterraneo.
In quella frontiera nel mare di mezzo che per anni è stata il centro della politica italiana, sulla chiusura dei porti e sul blocco degli sbarchi Matteo Salvini ha edificato la sua fortuna politica, ora non gli interessa più tanto, ma il cinismo politico con cui si strumentalizzano le emergenze è un virus che non riguarda soltanto il capo della Lega, attraversa il fronte opposto, anche se convive nella stessa maggioranza di governo.
Eppure la guerra delle frontiere che si combatte ovunque nel mondo, tra Venezuela e Colombia e tra Usa e Messico, per l’Europa non è solo una questione di umanità, è la questione politica che svela gli opportunismi e le debolezze dei governi nazionali. La democrazia virale, di cui parla Ilvo Diamanti, costringe le democrazie e le opinioni pubbliche al tempo sospeso dell’incertezza, svuota la partecipazione e schiaccia ogni articolazione sulla dialettica imposta dal virus. Pro o contro il green pass, pro o contro i vaccini, tutte le altre differenze sono annullate, da un lato la richiesta sempre più disincantata di un capo che decida per tutti, senza troppe discussioni, dall’altro la rivolta di chi si sente escluso da tutto, non ha nulla da perdere, trova nelle manifestazioni no vax il suo palcoscenico ideale, una rete internazionale che sta costruendo la sua organizzazione, le sue gerarchie, i suoi capi. L’implodere della storia che genera nuove divisioni, in uno scontro radicale in cui ad essere sconfitta è la possibilità stessa del discorso pubblico.
Per questo l’appello ad accendere una luce verde nelle case, e non solo nei presepi, è l’opposto di una trovata buonista, e va oltre la richiesta di tenere aperti i confini per i profughi e disarmare il ricatto dei dittatori. Nell’Italia del super green pass è un atto che dovrebbero sentire tutti i cittadini europei, gli stessi che due anni fa sventolarono la bandiera dell’Unione contro i sovranisti. Un gesto forse inutile, ma un gesto politico. La riaffermazione di una identità pluralista e della democrazia che resiste. In questo punto della storia, in questo nodo, in questa crepa.