Una classe politica irresponsabile, mentre la pandemia continua a infuriare. Arrivato all’ultimo anno di presidenza, tocca a Sergio Mattarella provare a fermare con il nuovo governo la corsa verso il baratro

Tocca a lui. La Sentinella nella notte della Repubblica, il Garante. Tocca al Presidente bloccare il treno in corsa verso la catastrofe. Di una crisi che non è di governo ma di sistema, che non è cominciata martedì 26 gennaio con le dimissioni del secondo governo presieduto da Giuseppe Conte ma che è figlia di anni, forse decenni, di paralisi, immobilismo, di iperpolitica mascherata da anti-politica. Di una politica Rt, mossa da un algoritmo in cui tutti gli attori recitano ossessivi la stessa parte: i governativi attaccati al governo, il distruttore Renzi in smania di autodemolizione, l’opposizione di destra sensibile a ogni refolo di protesta. Senza l’ambizione di cambiare gioco, di incidere, di influenzare la partita più delicata. Tocca a lui evitare il fallimento del piano di Riforma che farebbe deragliare l’Italia e la strategia dell’intera Europa. Tocca all’uomo che diventò Presidente la mattina del 31 gennaio 2015, sei anni fa.

Era un sabato, una giornata di pioggia grigiastra, ma dentro il Transatlantico affollato si faceva festa. A ripensarci fa ancora più impressione, oggi il grande corridoio dei passi perduti adiacente all’aula della Camera è ingombro dei banchi dei deputati che votano a distanza, fuori dall’emiciclo, a causa del covid, è off limits per giornalisti e portaborse. Il quarto scrutinio si concluse all’ora di pranzo: 665 voti per il nuovo presidente della Repubblica che giurò il 3 febbraio. Quella mattina suonò la campana di Montecitorio, come da tradizione. «All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere - e sarà - imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza», scandì il neo-eletto, Sergio Mattarella. Un appello a essere grandemente deluso. Lui è rimasto imparziale, ma non si può dire che i giocatori lo abbiano aiutato. Né che lo stiano facendo in queste settimane di manovre doppie e triple, di tradimenti, di veleni, di colpi bassi che definiscono la mediocrità delle squadre in campo.

Sono sei anni e il presidente entra ufficialmente nell’ultimo anno del suo mandato. In mezzo a una pandemia drammatica che ha messo a dura prova la tenuta del Paese. Nel pieno di una crisi di governo che in tanti si affannano a definire incomprensibile e che invece è largamente annunciata, è l’ultimo anello di una lunga catena di occasioni perdute. Un festeggiamento amaro, con la liturgia delle consultazioni al Quirinale complicata dalle esigenze di distanziamento del covid e dai veti reciproci, sotto la sorveglianza del segretario generale Ugo Zampetti, «la sombra del jefe del Estado», l’ombra del presidente per il quotidiano spagnolo El Pais, alla fine di un settennato tormentato.

«Avverto la responsabilità del compito che mi è stato affidato», disse Mattarella nel suo messaggio inaugurale. «La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale. L’unità che lega indissolubilmente i nostri territori, dal Nord al Mezzogiorno, ma anche l’unità costituita dalle attese e dalle aspirazioni dei cittadini. Difficile, fragile, lontana». Le fratture immateriali e quelle materiali. Le faglie dei terremoti dell’Italia centrale, tra l’estate e l’autunno del 2016, la rottura del ponte Morandi, alla vigilia del ferragosto 2018, con l’intollerabile prezzo di vittime della natura e dell’incuria degli uomini. E poi l’uragano del covid, come l’ha definito Conte, che ha sconvolto le vite di tutti, affrontato, ancora una volta, da un Paese diviso tra il senso dell’unità e della responsabilità nazionale e le spaccature di sempre: tra Nord e Sud, tra Stato centrale e regioni, tra governo e territori, tra lavoro dipendente e impresa privata.

MARCO DAMILANO

Ricucire le fratture. All’inizio del settennato significava presidiare i punti in sofferenza della società italiana, non lasciare solo chi non ce la faceva. Prima gli ultimi, poi i penultimi del ceto medio impoverito. Oggi è una larghissima fascia di popolazione aggredita dagli effetti del covid: l’emergenza sanitaria, le chiusure, la bomba economico-sociale pronta ad esplodere con la fine del blocco dei licenziamenti, la povertà educativa, la ferite invisibili della depressione psicologica di adulti e giovani. In mezzo sempre lui, il presidente con i capelli bianchi, chiamato dal destino a impersonificare la vicinanza dello Stato negli anni più difficili. Durante i numerosi, troppi funerali, un italiano normale che abbraccia altri italiani normali, scegliendo il passo lento, la presenza in punta di piedi, il pudore, l’empatia. Per restituire autorevolezza e dignità alle istituzioni, sfidando una volta ancora la rabbia, la frustrazione, la sfiducia.

In questa opera Mattarella ha svolto un ruolo insostituibile. Sarà l’eredità più forte. Mentre poco ha potuto fare di fronte allo sfaldamento che nel frattempo si produceva nel cuore dello Stato, al vertice delle istituzioni, con la magistratura decapitata nel suo organo di autogoverno, il Csm, e in crollo di autorevolezza, e in un sistema politico sempre più incontrollato, senza un principio di ordine nell’esecutivo, senza una responsabilità democratica del Parlamento.

Quando Mattarella fu eletto si ipotizzava una stagione di riforme costituzionali in arrivo. Così l’aveva immaginata il regista della sua elezione, Matteo Renzi. Nel gennaio 2015 il ragazzo di Rignano, appena diventato quarantenne, era all’apice del suo successo, deciso a durare a Palazzo Chigi per un decennio, almeno. «Lascerò dopo due mandati», confidò una volta, introducendo la figura del mandato di presidente del Consiglio, inesistente nella Costituzione. Due giorni prima dello scrutinio che avrebbe portato Mattarella al Quirinale, Renzi, all’epoca non parlamentare e dunque impossibilitato a votare, fece un giro alla Camera, alle sei della sera. Spavaldo come un torero che misura la polvere dell’arena prima della corrida, come il leggendario Juan Belmonte che ha scritto nelle sue memorie: «Cominciai a notare che spuntavano nuovi amici; cominciava a formarsi quella corte che si accalca intorno ai politici quando si annuncia un imminente cambiamento della situazione, in grado di portarli al potere...». Alla buvette incontrò un deputato di prima legislatura del Movimento 5 Stelle, Alfonso Bonafede. «Vieni a trovarmi al Nazareno», lo corteggiò. Nessuno avrebbe potuto immaginare assistendo a quella scena che un giorno Bonafede sarebbe stato ministro della Giustizia e che nel suo nome Renzi a capo di un piccolo drappello di parlamentari avrebbe fatto cadere il governo, dopo mesi di guerriglia. È una beffa atroce, per Mattarella, che il suo kingmaker per il Quirinale, il giovane premier che si era candidato a governare l’Italia, si sia trasformato in una macchina di instabilità, in un ammazzagoverni in servizio permanente effettivo, fino alle convulsioni di questi giorni. Ma l’opera di demolizione di Renzi non ha incontrato un progetto politico alternativo che non sia l’immobilità al potere del premier Conte e dei 5 Stelle e l’immobilità all’opposizione di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni.

Se fosse passato il progetto di Renzi il presidente della Repubblica sarebbe stato privato di fatto dei suoi poteri più importanti: la designazione del presidente del Consiglio incaricato di formare il governo, lo scioglimento anticipato delle Camere. Con la rovinosa sconfitta di questo disegno al referendum del 4 dicembre 2016 Mattarella si è invece ritrovato in una terra di nessuno. «Il testo vigente - conservato inalterato dal voto popolare - costituisce la Costituzione di tutti gli italiani, che tutti dobbiamo amare e rispettare», concluse qualche giorno dopo il referendum.

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Nel suo settennato si contano, fino ad ora, quattro crisi di governo, due leggi elettorali (una, l’Italicum, mai sperimentata nel voto, l’altra, il Rosatellum, è stata un autogol per i promotori renziani), due referendum costituzionali (quello del 2016 di Renzi, bocciato, quello del 2020 sul taglio dei parlamentari, approvato). E la legislatura in corso, caratterizzata dal burlesque dei gruppi parlamentari e delle maggioranze governative, interscambiabili, indifferenti, con gli stessi personaggi pronti a indossare se richiesti dalle circostanze gli abiti dell’anti-europeismo o dell’europeismo, dell’unità o della disunione, della costruzione o dello sfascio. Siamo oltre il trasformismo, siamo al fregolismo, al populismo in un solo individuo, dove ciascuno è populista per sé. Sono i populisti senza popolo che compongono il panorama di questa ultima crisi, non ci sono i partiti e non ci sono neppure le tribù. A rappresentare un aggancio con l’Europa restano le poche famiglie politiche rimaste in piedi: il Pd, prima di tutti, e quel che resta di Forza Italia, più il paradossale riferimento sovranista del suo Salvini-Meloni. Ma proprio per questo gli effetti della crisi rischiano di ricadere su di loro. Il partito-sistema, il Pd. E l’uomo che regge e incarna il sistema, Sergio Mattarella.

Nel 1991, trent’anni fa, tutto il mondo cambiò, con la prima guerra nel Golfo, la fine dell’Unione sovietica, la conclusione del processo di Unione economica e monetaria europea a Maastricht. Solo la classe dirigente italiana non se ne accorse. «La classe dirigente non aveva capito che firmando il Trattato apriva un cambiamento di tale portata che difficilmente sarebbe rimasto indenne», commentò anni dopo Guido Carli, il ministro del Tesoro dell’epoca. Il 17 gennaio 1991, trent’anni fa, il Consiglio dei ministri del governo Andreotti nominò su proposta di Carli direttore generale del ministero del Tesoro un quarantaquattrenne allievo di Federico Caffè, Mario Draghi, che assistette da quella posizione al successivo sfaldamento di quel sistema politico e dell’economia nazionale. Mattarella era già in prima linea, esponente di spicco della sinistra democristiana, vice-segretario della Dc dopo essersi dimesso da ministro. Quella classe dirigente, gli Andreotti, i Forlani, i Craxi, sapeva tutto, capiva tutto, ma non faceva più nulla. Attendeva: l’elezione del Capo dello Stato, Francesco Cossiga scadeva nel 1992, o la fine. Arrivarono le inchieste di Mani Pulite, l’intervento esterno, «la nostra guerra di Algeria», scrisse lo storico Pietro Scoppola.

Oggi la nostra guerra di Algeria si chiama Recovery Plan. Se questa classe dirigente fallisce viene giù il Paese e poi l’Europa. Appuntamento mancato per tutti: i politici incapaci e inetti nelle loro trappole, fino a consegnarsi alla paralisi, il mondo dell’impresa, del lavoro, delle categorie, bloccate sulle rivendicazioni settoriali (ma fosse stato per molti di loro l’Italia sarebbe rimasta fuori dall’euro), la cultura e l’intellettualità che parla di sé allo specchio e, non tiriamoci fuori, il mondo del giornalismo e l’informazione. Sono pochissimi i dibattiti sul Piano di Ripresa, nulla di paragonabile a quanto accadde ai tempi di Maastricht o dell’ingresso nell’euro. Prevale in gran parte un’informazione Rt, fotografica, un giornalismo rinunciatario che assegna a se stesso una funzione notarile, distribuisce i colori delle zone rosse, gialle e arancioni senza avere più l’orgoglio di rappresentare l’opinione pubblica.

Un fallimento sarebbe una responsabilità collettiva. E sarebbe ingeneroso caricare il peso di una soluzione sulle spalle di una persona sola. Il presidente si è assegnato il compito di non inteferire nelle scelte politiche, fin da quando, nel 2018, affermò che le le elezioni erano una «pagina bianca», tutta da scrivere. Nonostante questo, subì una minaccia di impeachment da parte degli stabilizzatori di oggi. Ma senza un cambiamento radicale di rotta, per Mattarella l’ultimo anno di presidenza rischia di essere il più orribile di tutti, con la prospettiva finale di vedere arrivare al vertice dello Stato la destra peggiore. Questi sono i giorni dell’ultimo appello, l’ultima chiamata di responsabilità. Ma è necessario uscire dall’invocazione del governo di salvezza nazionale o di salute pubblica e scrivere un patto di fine legislatura, con pochi punti. Il Piano di Ripresa che va ripensato radicalmente e attuato senza perdite di tempo. Un piano di investimenti per il lavoro e la crescita, in grado di reggere l’urto della fine del blocco dei licenziamenti: non ostinarsi a tenere in piedi imprese e aziende finite, ma salvare le persone e garantire la possibilità di rientrare in circolo. Un progetto di riforme istituzionali, compresa una legge elettorale per restituire ai cittadini il potere di scegliere i rappresentanti e indicare i governi, senza cui il taglio dei parlamentari è un gesto dadaista. Un patto tra i partiti che diventi la premessa di un nuovo patto di cittadinanza. Qualcosa che va ben oltre le miserie di questi giorni e sopra la necessità di dare vita a un nuovo governo, qualunque esso sia e da chiunque sia guidato. Qualcosa da comunicare al Paese e alle Camere, anche con un messaggio formale, se necessario. Il presidente Mattarella lo sa. Sa bene che l’arbitro è chiamato a intervenire.