Scorro su Telegram i messaggi della chat Basta dittatura, faccio un viaggio virtuale tra fotomontaggi del dottor Matteo Bassetti appeso per i piedi come il Duce in piazzale Loreto, ancora lui tra i colleghi sui banchi di Norimberga, gli indirizzi di giornalisti, i numeri di telefono, le minacce, gli insulti, i proclami («Manca solo la nostra vittoria per concludere»). Supero il disgusto e la voglia di ripetere ancora quanto è stato detto in questi giorni, che si tratta di pochi ideologizzati, come si fa come quando allo stadio ci sono gli scontri tra i tifosi, che i No Vax sono una bolla mediatica alimentata anche dal solo parlarne.
Non si può ignorare l’orrore perché da quella bolla è uscita l’aggressione fisica e verbale contro il videomaker di Repubblica e di Gedi Francesco Giovannetti e Antonella Alba di Raiwes 24, senza considerare le intimidazioni quotidiane che stanno piovendo in queste ultime settimane. Ma soprattutto perché i No Vax rappresentano, a parti capovolte, lo stato del dibattito pubblico italiano, la qualità dei contenuti e degli argomenti, misurano la temperatura della democrazia italiana, come succede quando un virus aggredisce un corpo indebolito e privo di anticorpi.
L’Italia è un corpo che ha saputo reagire alla sfida della pandemia, come dimostra l’impressionante più 17,3 per cento del Pil nel secondo trimestre del 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020. E la campagna di vaccinazione ha funzionato, nonostante lentezze, ritardi, contraddizioni. Nei cinema, nei bar, nei ristoranti e ora sui mezzi pubblici e nelle scuole il controllo del green pass è un adempimento che viene eseguito in maniera ordinata, il certificato fa parte della vita di ogni giorno per milioni di italiani.
Non dei vaccini ci parlano i No Vax, dunque, ma di un vuoto nella società. È come se tra il presidente del Consiglio Mario Draghi, il dominus politico incontrastato di questa stagione, e le piazze che raggruppano i soliti fascistoidi in cerca di visibilità, non ci sia nulla: non i partiti, non i sindacati, né altre associazioni, nessun corpo intermedio. Al di là della contabilità sul numero dei manifestanti e delle personalità coinvolte, è una dialettica pericolosa per la democrazia, che invece si nutre di partecipazione, confronto, critica, conflitto a viso aperto, non mascherato e non tra cripto-militanti.
Non è una novità per la storia italiana. Una prima stagione di governi di unità nazionale, nel cuore del cinquantennio della Prima Repubblica, tra il 1976 e il 1979, con il monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, sostenuto anche dal Pci di Enrico Berlinguer, coincise con il picco della violenza politica: non solo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, ma anche gli scontri in piazza, il terrorismo rosso e nero. La caccia ai giornalisti, dalla gambizzazione nel 1977 di Indro Montanelli a Milano, del vice-direttore del Secolo XIX Vittorio Bruno a Genova e a Roma del primo direttore della storia del Tg1 Emilio Rossi, un cattolico che andava in redazione in autobus, era appena sceso e stava leggendo “Massa e potere” di Pietro Ingrao quando Adriana Faranda gli sparò fracassandogli le due gambe per il resto della vita, mi è capitato tante volte di incontrarlo in seguito, ancora sull’autobus, saliva a fatica con il bastone, quasi si scusava di creare disturbo agli altri passeggeri. Fino ad arrivare all’omicidio a Torino del vice-direttore della Stampa Carlo Casalegno, e di Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera, ucciso nel 1980 sotto la sua abitazione a Milano da un gruppo di borghesi che giocavano con la rivoluzione. Faccio questo elenco solo per dire cosa dovrebbe smuovere nella memoria profonda del Paese la notizia di un gruppo che incita a pedinare i giornalisti e andarli a cercare sotto casa pubblicando i loro indirizzi.
In quella stagione i partiti erano ancora radicati, combatterono una battaglia per fare da diga alla violenza, pagando un prezzo di sangue (l’operaio iscritto al Pci Guido Rossa, sulla sua storia è in uscita la biografia di Sergio Luzzatto “Giù in mezzo agli uomini” per i nuovi Struzzi di Einaudi curati da Ernesto Franco) e elettorale: il Pci perse un milione e mezzo di voti. E reggeva il dibattito sui giornali, tra gli intellettuali, sui luoghi di lavoro, nelle università, in mezzo al popolo.
La seconda stagione di unità nazionale, il governo di Mario Monti nel 2011-2012, appoggiato da tutti i partiti ma senza ministri politici come sono invece oggi quelli presenti nel governo Draghi (forse perché in quel caso c’era da tagliare risorse e in questo da distribuire), scatenò una reazione democratica. La nascita di un partito, il Movimento 5 Stelle, che all’inizio del governo tecnico aveva zero consensi e che alle elezioni del 2013 conquistò otto milioni di voti, diventando il partito più votato d’Italia e la presenza stabile nella politica italiana che è oggi. I partiti si erano indeboliti e vennero giù nei consensi, il dibattito civile era stato sostituito dalla rete e dai talk televisivi, la personalizzazione della politica era al punto più alto, dopo venti anni di berlusconismo. Il vuoto avanzava, si immaginava che fosse colmato dai leader e dall’anti-politica, che invece era destinata ad allargare il vuoto.
Oggi la nuova unità nazionale consegna un panorama polarizzato. Da una parte Draghi, il suo governo, la sua leadership, l’esercizio del potere, la prospettiva di inserire l’Italia nel riassetto internazionale che sta accompagnando lo scossone mondiale dell’Afghanistan, venti anni dopo l’attentato dell’11 settembre. Dall’altra, una platea di esclusi, di non rappresentati, infiammati poi dai professionisti della piazza, il solito pugno di «vecchi generali e giovani neo-fascisti», come li definiva Pier Paolo Pasolini già nel 1974. In mezzo, il vuoto.
Non è il nulla, naturalmente, il sincero impegno che tanti candidati e candidate stanno mettendo nei comuni che vanno al voto tra un mese, il 3 ottobre. O chi affolla le feste dell’Unità, i festival di politica come quello di Mestre che riprende la settimana prossima, dedicato alle donne, gli appuntamenti culturali su e giù per la penisola. Non sono il nulla gli amministratori, i sindacalisti, i preti, gli insegnanti, l’associazionismo e il volontariato di chi accoglie anche in queste ore i profughi afghani. Sono coloro che fanno da manutenzione alla società italiana, insieme agli imprenditori che non fuggono dalla responsabilità, che colgono questa stagione come un’occasione di crescita e non di depredamento.
Ma la società italiana riparte dopo un’estate segnata da assessore pistoleri e candidati sindaci che girano armati in ospedale, si ritrova ancora anestetizzata, addormentata, come dopo una lunga operazione, quando il corpo fatica a rimettersi in piedi. Anche il dibattito politico è schiacciato tra due polarità: l’inevitabilità delle soluzioni offerte dal governo Draghi, lo stato di necessità che costringe tutti a non superare il limite, a rischiare di sbagliare per eccesso di difetto, come suggeriva Marco Follini una settimana fa sull’Espresso, e la violenza di chi si sente fuori dal circuito degli inclusi e prova a rompere l’assedio della maggioranza, oggi sui vaccini e sul green pass, domani chissà.
Spezzare una dialettica schiacciata su Draghi e i No Vax signfica riprendere iniziativa, identità, progetto e, perché no, fantasia, immaginazione, la sfera della politica che è libertà. In vista delle prossime scadenze nel calendario istituzionale: le elezioni amministrative, la scelta del nuovo Capo dello Stato. E in vista di un conflitto sociale che riprenderà, che ha bisogno di rigore, di serietà, di rappresentanza vera e non delle pessime caricature di questi giorni. Per uscire dalla bolla di sfiducia e di furore verso quanto sembra arrivare dall’alto, che riassume la bassa qualità del nostro dibattito pubblico. E uscire dall’anestesia, che può far comodo nell’immediato governo dell’emergenza ma che nel profondo abbandona nel sonno la democrazia.