La novità Elly Schlein porta al Pd la sua vera identità

La mia amica e collega Tiziana, che abita a Rimini, domenica 26 febbraio si è messa in fila per votare “Stefano”, come lei chiama Bonaccini. Il giorno dopo l’ho incontrata nell’ufficio di Milano. Mi ha guardato con gli occhi sgranati e mi ha detto: «Hai visto? Schlein…». «Beh, ho risposto. Erano in due, uno doveva pur vincere». «Sì, ma lei non…». Tiziana, che è una signora, non ha finito la frase, ma chissà cosa avrebbe voluto dire. Poi però, ricordandosi della volpe e l’uva, ha chiuso la conversazione confidando che era contenta che “Stefano” restasse alla guida della Regione Emilia-Romagna «perché stava facendo bene».

 

Tiziana si è messa in fila per le primarie. Chissà se alle prossime elezioni si metterà ancora in fila per votare Pd. Questo è l’interrogativo che si sono posti tutti i commentatori politici dopo la vittoria di Elly Schlein alle primarie per la segreteria del Pd. Quanti ne resteranno? È possibile che qualcuno se ne vada. In fondo se n’è già andato Giuseppe Fioroni, esponente ex Dc, e qualcun altro lo seguirà in quella o in altre direzioni.

 

Ma il Pd è un partito vero dove si discute, si media, e arriva a una sintesi. Che poi si digerisce. Chi si interroga su quanti se ne possano andare da un partito di centrosinistra che piega un po’ di più a sinistra, non si è posto però il problema di quanti se ne sono andati in tutti questi anni quando il partito di centrosinistra si piegava di più verso il centro e anche verso destra. Oppure si piegava e basta, visto l’andazzo degli ultimi mesi.

 

Quanti elettori si sono dati alla macchia perché non si riconoscevano più in quel partito? Ora che alcuni di loro sono tornati a farsi vivi, un milioncino o giù di lì, cosa facciamo, li rimandiamo a casa? Sono tornati per dire la loro e con Schlein poco più della metà ha scelto la novità.

 

Aria nuova a sinistra. Il nuovo funziona in politica ma non è detto che funzioni anche nella pratica, però gli elettori ci sperano. Il vecchio l’hanno già provato.

 

Bonaccini odorava di establishment, di conservazione, di consociativismo (ferale l’uscita con gli elogi alla Meloni), un po’ anche di trasformismo: prima comunista, poi renziano, infine innovatore contro le correnti. E poi il progetto impossibile: tenere insieme ancora Renzi, Calenda e Conte. Francamente un po’ troppo da ingoiare. Però il Pd è anche quello e la Schlein dovrà farci i conti per tenere tutti insieme più possibile. Scriveva il britannico The Guardian a metà febbraio che il Pd «ha bisogno di un’identità chiara, dato che il partito da tempo non ne offre una convincente».

 

Ora il Pd un’identità chiara dovrebbe averla ma soprattutto Schlein incarna probabilmente quello che sin dall’inizio avrebbe voluto essere il Pd: aperto, inclusivo, innovatore. Invece finora si è dimostrato un partito litigioso, fermo al ’900, con segretari prima ex-Ds, dopo ex-Dc. Più manovratore che innovatore, più chiuso sul potere che aperto al Paese, poco inclusivo e molto spocchioso. È la prima volta che alla guida arriva qualcuno nuovo davvero che tesserà la rete delle alleanze a sinistra, se non altro perché i numeri contano e portano avanti le idee.

Se Pd e Cinque Stelle marceranno uniti, senza rifare il Fronte popolare, ma con una solida piattaforma programmatica moderna, aperta e condivisibile, è probabile che in tanti tornino a votare. E allora la Storia riprenderà il suo corso.

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