In Libano un milione e 400 mila sfollati interni.E nell’attesa della massiccia offensiva israeliana, l’azione di spie e droni ha creato un climadi paranoia

La una collina sopra Beirut, il piccolo Alì guarda verso Sud. In basso, le luci del quartiere di Dahieh, diventato nell’immaginario popolare dell’Occidente «la roccaforte di Hezbollah». Un boato rompe il silenzio notturno, poi delle scie luminose nel cielo e infine un’esplosione che si staglia come un fungo deforme e rosso tra i palazzi. La madre di Alì lo rassicura; intorno a lei, altri tre bambini che guardano verso quella che fino a due settimane fa era casa loro.

Sono quasi un milione e 400 mila gli sfollati interni del Libano, secondo il ministero della Salute locale. Di questi, la maggior parte proviene dai popolosi sobborghi musulmani a Sud della capitale. Famiglie intere che ora vivono sulla Corniche, il lungomare simbolo della ricostruzione post guerra civile. Hanno scelto di spostarsi sulla passeggiata che sovrasta gli scogli perché lì non c’è niente da colpire; nessun edificio, nessun possibile «obiettivo strategico». Ognuno si è sistemato come ha potuto, in base a ciò che le possibilità economiche e la fretta della fuga hanno permesso di recuperare. I più fortunati, ma sono pochi, hanno delle tende da campeggio; gli altri hanno costruito elaborati sistemi di corde e pali per sorreggere i teli che servono a schermare dal sole bruciante di giorno e a riparare dal vento umido del Mediterraneo la notte. Trascorrono le giornate tra un tè e uno shisha, mangiano sui tappeti per terra, dormono per terra, ogni tanto si riuniscono con i vicini di accampamento per condividere un pasto frugale a base di pane arabo e poco companatico. In alto, nascosti dalle nuvole, i droni israeliani presidiano costantemente il territorio.

Dovunque si cammina a Beirut si sente il ronzio pesante delle eliche dei droni. Sono gli occhi di Tel Aviv sulla capitale libanese, raccolgono costantemente informazioni e dati, li trasmettono ai satelliti israeliani nella bassa atmosfera, che a loro volta comunicano con le basi dell’intelligence militare. Nelle sale operative decine di addetti si danno il cambio per non lasciare mai gli schermi sguarniti. Questo impressionante apparato di sorveglianza ha permesso agli uomini di Benjamin Netanyahu di colpire la catena di comando di Hezbollah in modo devastante, decapitandola politicamente e militarmente. Ma c’è un altro aspetto fondamentale: la presenza degli infiltrati. Israele è riuscito a corrompere alcune delle figure apicali del «Partito di Dio», personaggi che avevano accesso a informazioni sensibili come il luogo e la data degli incontri del gruppo di comando. Senza queste spie sarebbe difficile spiegare la precisione dei bombardamenti israeliani sui palazzi di Dahieh mentre si stavano svolgendo riunioni segretissime.

Spie e droni hanno creato un clima di paranoia totale in Libano. Da un lato, a Beirut non si può fare un passo senza pensare di essere osservati, senza quella sottile pressione esercitata dal ronzio metallico che ricorda che la guerra è in corso, che Israele attaccherà di nuovo. Fino a quando? Difficile dirlo al momento. Dall’altro lato, appena si esce dalla capitale diretti a Sud, s’incontra un’ostilità nuova nei confronti dei giornalisti e, in generale, degli stranieri. Chiunque sia stato in Libano prima dell’estate scorsa descrive Hezbollah come un partito con una sezione comunicativa molto sviluppata e ben disposto ad avere rapporti con la stampa. La volontà dei vertici del gruppo sciita era chiaramente quella di accreditarsi, anche agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali, come una formazione politica moderna e non come un gruppo di miliziani ignoranti e assetati di sangue. Ora, invece, il sospetto ha permeato tutti i livelli dell’organizzazione. E così capita di fermarsi per documentare una distribuzione di aiuti umanitari e di essere cacciati in malo modo, di volere riprendere le conseguenze di un bombardamento come quello di sabato scorso e di subire per due ore controlli e domande insistenti su perché siamo qui e chi ci manda. Il vero successo dell’offensiva israeliana per ora è soprattutto questo: avere sfaldato i legami interni di Hezbollah. Contemporaneamente, l’uccisione dell’ex capo storico, Hassan Nasrallah, del suo vice (anche se non ancora confermata ufficialmente) Hashem Safieddine e di una quantità di alti ufficiali a capo delle unità di droni, missili e logistica ha seminato panico e confusione nella gerarchia del «Partito di Dio».

Si consideri che Hezbollah non è solo un partito né tantomeno è solo una milizia sciita filopalestinese. La storica formazione istituita nel 1985 per volontà di Teheran nel territorio libanese è oggi una vera e propria organizzazione parastatale. Gestisce ospedali, scuole, centri di accoglienza, mense per i poveri…in altri termini, ha costruito un sistema di welfare che in molte aree del Libano meridionale è l’unica istituzione sociale davvero riconosciuta. Soprattutto se si considera che – dopo 15 anni di guerra civile, dopo due invasioni israeliane e con un sistema economico costantemente sull’orlo della bancarotta – il Libano è diventato la patria di speculatori e affaristi, che traggono profitto dal sistema neoliberista imposto dalle agenzie internazionali che hanno prestato a Beirut i miliardi necessari per non affondare del tutto. Inoltre, Hezbollah è l’unica realtà che per due decenni ha resistito alle pressioni militari di Tel Aviv nel Sud, arrivando addirittura a costringere le forze israeliane alla ritirata nel 2006. Quell’autorevolezza, mista al vasto sostegno della parte di popolazione sciita del Paese, gli è valsa finora una posizione di primo piano nella politica libanese. Primato tenuto, spesso, anche con la pressione di una milizia addestrata, armata e pronta a difendere gli interessi del partito. Allo stesso tempo, una parte significativa dei partiti che rappresentano i cristiani maroniti del Libano spera che la guerra attuale sferri il colpo decisivo a Hezbollah, che permetta ai rappresentanti cristiani, abitanti delle zone di Ashrafieh per ora risparmiate dai bombardamenti, di recuperare il potere che nelle ultime due decadi hanno perso.

Nasrallah è morto e, oltre che un capo, gli sciiti del Libano hanno perduto un simbolo. Oratore eccellente, amico personale dell’ayatollah Khamenei, stratega politico che aveva trasformato Hezbollah da semplice milizia a forza egemone in Parlamento nelle elezioni del 2018 e, soprattutto, capo dell’unica vera forza armata attiva ed efficiente del Paese. L’esercito libanese, infatti, dopo i disastri politici ed economici degli anni passati, è oggi una forza quasi interamente finanziata dagli Usa, con un numero di effettivi e una struttura organizzativa insufficienti a fronteggiare minacce esterne. A mala pena riesce a mantenere l’ordine interno e, come s’è visto, al Sud è esautorato dalle forze sciite. Certo, è presto per tirare le somme di un conflitto che si annuncia più lungo del previsto. Da quando, il 1° ottobre scorso, l’esercito israeliano ha annunciato l’inizio delle operazioni di terra sul fronte sud, non si è assistito ad avanzate significative. Per ora sembra che i generali di Netanyahu prediligano l’invio di piccole unità d’assalto a ridosso della «Linea blu», il confine provvisorio tra Libano e Israele stabilito dall’Onu dopo la ritirata di Tel Aviv nel 2000 e nei pressi del quale si trova la missione dei caschi blu Unifil. Gli scontri si sono concentrati nel Sud-Est del Paese, in particolare nel piccolo villaggio di Yaroun. È qui che sono morti i primi otto soldati israeliani, presi in un’imboscata dai miliziani di Hezbollah che li aspettavano. Ma è evidente che questa strategia di «incursioni limitate» non potrà durare a lungo perché mette troppo a rischio i soldati israeliani, nonostante la supremazia aerea. C’è chi crede che Israele sia disposto a sacrificare qualche militare per stanare i nemici appostati tra le montagne. Altri ritengono che si tratti solo di manovre esplorative per preparare il terreno in attesa dell’offensiva in forze.