Giovani
23 dicembre, 2025Hanno lasciato gli studi e non trovano un lavoro soddisfacente e retribuito il giusto. Sono le storie dietro i numeri della dispersione scolastica, spesso al bivio con il disagio. E di chi prova a offrirgli una chance neppure immaginata
Il treno passa a pochi metri dalle finestre, una linea curva che taglia il quartiere come una cicatrice. Alla Barca, periferia ovest di Bologna, l’edificio che tutti chiamano “il Treno” sembra non finire mai: cinquecento metri di portici bassi e balconi che si guardano l’un l’altro. È qui che vive Pier, ventidue anni e una timidezza che tiene il mondo a distanza per paura di sbagliare. Ha lasciato il liceo artistico dopo due anni: «Non ce la facevo più, mi sentivo fuori posto». Le giornate si consumavano lente, tra la sua cameretta e il parco. Poi una bocciatura, il trasferimento in un professionale di grafica, e lì l’incontro con Mua, che lui chiama “bro”. Oggi lavorano insieme, ciascuno dalla propria stanza: grafica 3D per piccoli brand, copertine di dischi, — «abbiamo fatto l’animazione del vinile e del disco di Angelina Mango» — e un sogno comune. «Non so se ce la faremo – dice Pier –«ma per la prima volta mi sembra di avere una direzione».
Bologna non è il Sud, ma dentro i suoi palazzi si nasconde la stessa incertezza. Città universitaria, colta, progressista: eppure sotto le torri e i portici vivono migliaia di giovani che non studiano, non lavorano, non sanno da dove ricominciare. Nelle ricerche li chiamano Neet. Nella realtà, sono figli di un tempo senza promessa.
Alla Bolognina, tra i binari e i murales, c’è Muha, ventiquattro anni, genitori kosovari. È stato bocciato due volte alle medie, poi un professionale per autoriparatori: «Lì non ti bocciano, tanto sono tutti scappati di casa». Dopo due anni ha lasciato. «Pensavo che spacciare fosse da fenomeni». A diciotto anni prova come magazziniere. Contratti di due mesi, poi il silenzio. Quando lo arrestano in Svizzera con due chili di cocaina, è il suo primo reato. Ora è ai domiciliari, volontario alla cooperativa Baumhaus: «Mio padre mi diceva di andare a scuola, ma io volevo fare serata. Adesso forse lavorerei, ma qui sono segnato». Non ha desideri, né ambizioni: «Forse andare via. O Tornare a scuola… No, è troppo tardi».
A San Giorgio di Piano, venti minuti da piazza Maggiore, vive Andrea, che tutti chiamano Tyson. Diciannove anni, genitori napoletani, ha provato tre volte a finire l’istituto tecnico di elettronica. Bocciato, e allora lavapiatti, magazziniere. «Ma poi hanno fatto i tagli». È finito in palestra a boxare. «Forse sono un sognatore, ma vorrei lavorare nello sport, anche solo insegnare ai bambini».
Sono traiettorie diverse, ma attraversate dalla stessa domanda: cosa resta quando scuola e lavoro non smettono di essere una prospettiva? A rispondere, spesso, sono le associazioni. Anna Romani, della cooperativa Baumhaus, si prende cura di chi inciampa. «A quattordici anni nessuno sa chi è, eppure il sistema ti costringe a scegliere. Liceo, tecnico, professionale: se non reggi, scivoli in basso. La scuola non può farcela da sola. Serve una rete di luoghi e relazioni che tengano insieme chi ha delle incertezze». Baumhaus costruisce percorsi personalizzati: laboratori creativi, tutoraggi, progetti di inclusione. «Non si tratta solo di recuperare voti, ma di ridare senso alla conoscenza, farla diventare creatività. Cultura, moda, arte digitale possono aprire mondi nuovi».
Più a Sud, tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli, i tassi di abbandono scolastico superano la media nazionale già tra gli otto e i quattordici anni. Disoccupazione, abitazioni sovraffollate, carenza di supporti: solo lo 0,2 per cento delle richieste di servizi per l’infanzia trova risposta. Eppure, in mezzo a motorini e pizzerie per turisti, c’è chi prova a ripartire. «Oggi è più difficile intercettarli», racconta Alessandro Pezzella, educatore dell’Associazione Quartieri Spagnoli Onlus: «Cominciano presto a spacciare o a girare armati, a dodici anni. Non per fame, ma per status. È una forma di appartenenza». Poi abbassa la voce: «Ma ci sono anche gli altri. Quelli che ancora possiamo raggiungere».
Nei laboratori dell’associazione si recita, si impasta, si esce per la prima volta in barca a vela. «Non insegniamo un mestiere, ma la possibilità di costruirsene uno. Gli facciamo capire che sanno fare cose», dice Pezzella: «E quando ci riescono, si sorprendono sempre».
Martina Abbate, diciotto anni, è una di loro. Ha lasciato un istituto di moda dove «studenti e professori stavano più nei corridoi che in classe». Poi un tirocinio da parrucchiera: dodici ore al giorno per quattrocento euro al mese. «È stato pesante, ma mi è servito. Ho capito che posso farcela». Oggi fa anche l’attrice, ha recitato in “Criature” di Cécile Allegra, girato proprio nei luoghi della dispersione. «Non sogno grandi cose, cerco un lavoro. Non voglio crescere i miei figli nella stessa situazione».
In Campania e Sicilia, la quota di Neet è la più alta d’Italia. Secondo l’ultimo rapporto di Fondazione Gi Group, nel 2024 i giovani tra i 15 e i 34 che non studiano né lavorano superano i due milioni. Il tasso di Neet è del 15,2 per cento nella fascia 15-29 anni; il 17,3 per cento tra i 15 e i 34. Ma dentro quei numeri c’è un mondo. Disoccupati di lungo periodo, scoraggiati, ragazzi in attesa di risposte, giovani donne che si occupano della famiglia. In alcuni casi, persino lavoratori in nero che sfuggono alle statistiche.
«Serve un approccio olistico, che parta dal territorio, dalla scuola, arrivando ai giovani anche attraverso il coinvolgimento dei genitori», spiega Rossella Riccò, responsabile dell’Area studi e ricerche della Fondazione Gi Group. «Le iniziative generaliste, come Garanzia giovani, hanno raggiunto chi era già vicino al sistema, ma i più fragili restano fuori. Per loro servono figure di contatto: educatori di strada capaci di ascoltarli, di mostrare che le competenze che già possiedono hanno valore nel mercato legale». Il confine tra lavoro regolare e sommerso, in queste storie, è sottile. «Bisogna spiegare perché conviene stare nella legalità – continua Riccò – perché significa diritti, contributi, prospettive. Ma anche far capire che un lavoro può dare senso, dignità, identità».
In questo scenario si inserisce “Oltre la pandemia II”, un progetto realizzato da Fondazione Avsi a Napoli e Catania con il sostegno di altri enti ed associazioni. L’obiettivo è semplice e ambizioso insieme: rimettere in moto vite sospese, segnate da abbandoni scolastici, famiglie fragili, disoccupazione strutturale. Sedicenni come Tonia che ha mollato lo scientifico e poi l’alberghiero perché «era un caos. I professori non ascoltavano, io non avevo più voglia». Ora, dopo un corso finanziato dal progetto, fa la parrucchiera: «Mi piace imparare, le persone sono gentili». Come lei Federica che con il rimborso del tirocinio – cento euro a settimana – si paga la scuola triennale. «Alla fine voglio aprire un’attività tutta mia». E Felipe, nato a Rio de Janeiro, cresciuto a Napoli, adesso fabbro di giorno e studente serale: «Mi piace costruire cose. Magari, chissà, andrò all’università».
In Sicilia, dove la dispersione scolastica supera il 15 per cento e la disoccupazione giovanile tocca il 31,2 per cento – quasi il doppio della media nazionale – associazioni, parrocchie e cittadini chiedono interventi urgenti per i tanti ragazzi che, come Giovanni, si sentono in sospeso: vite interrotte da tante porte chiuse. Ha 22 anni e si è diplomato al liceo artistico di Catania senza mai essere bocciato. Ha inviato decine di domandine – così chiama le richieste di lavoro spedite ovunque: alle Poste, ai supermercati, perfino al Comune, dove sperava di «abbellire qualche spazio con i murales». Mai una risposta. Le uniche offerte erano in nero: «Non voglio lavorare senza assicurazione e per pochi soldi», racconta.
Oggi, dopo aver partecipato a un corso del progetto “Oltre la Pandemia II”, svolge il servizio civile alla Caritas e ha frequentato un cantiere scuola-lavoro che spera di riprendere, magari per diventare idraulico. «Le mie giornate sono cambiate: prima stavo chiuso in casa tra videogiochi e serie tv. Ora sto costruendo qualcosa». Sono biografie che raccontano una forma di resistenza.
Nei numeri dei Neet, l’Italia resta maglia nera d’Europa. Ma dietro le percentuali ci sono ragazzi che aspettano solo di avere un’occasione di riscatto.
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