Giovani
1 settembre, 2025Umberto Eco, nella sua Bustina Compagni che sbagliano, sottolinea come abbiamo un grosso problema con l’interpretazione del verbo “sbagliare”. Compiere un errore significa possedere la seria convinzione di essere sulla strada giusta pur inciampando al suo interno. Eppure, vediamo ancora il fallimento come una montagna invalicabile. È la storia di Sisifo: gli dei lo puniscono costringendolo a trascinare, ogni giorno, un enorme masso fino alla vetta di un monte, per poi vederlo rotolare giù
Non sempre ci soffermiamo sul peso e la profondità che il linguaggio assume: spesso ignoriamo, o vogliamo dimenticare, ciò che le parole hanno da dirci. Umberto Eco, nella sua Bustina Compagni che sbagliano, sottolinea come abbiamo un grosso problema con l’interpretazione del verbo “sbagliare”. Siamo abituati a vedere del torbido al suo interno, nonostante, come spesso pensiamo, non esprima un sentimento di colpa: "Sbaglia il pilota che compie un atterraggio scorretto, sbaglia il medico che azzarda una diagnosi inesatta, ma ciascuno di costoro aveva la ferma intenzione di fare bene e non si era accorto che sbagliava”.
Compiere un errore, secondo il celebre scrittore, significa possedere la seria convinzione di essere sulla strada giusta pur inciampando al suo interno. Non equivale ad attuare deliberatamente un comportamento di cui un giorno ci pentiremo. Perseveriamo percependo il verbo “fallire” come una montagna invalicabile. È la storia di un re di nome Sisifo: gli dei lo puniscono costringendolo a trascinare, ogni giorno, un enorme masso fino alla vetta di un monte, per poi vederlo rotolare giù, schiantandosi al suolo. E, a quel punto, ricominciare da capo. Crediamo che gli sbagli implichino una distruzione delle strade che abbiamo percorso, una colpa per il tempo perduto, avvertendo così il bruciore delle nostre certezze che si inceneriscono.
Tuttavia, non riflettiamo abbastanza sul fatto che proprio la dimensione del fallimento è una di quelle che più ci contraddistingue, soprattutto relazionandoci sempre di più con apparecchi dotati di intelligenza artificiale, che non dovrebbero conoscerla affatto. Sì, talvolta ChatGpt spara stupidaggini, ma un giorno potrebbe diventare impeccabile, facendoci risvegliare in un mondo popolato da figure senza sbavature. Non notiamo che sono proprio le nostre crepe a costruire un futuro possibile: le macchine sono immaginate per essere straordinarie, perfette, mentre nella nostra storia evolutiva abbiamo dovuto seguire un percorso di tentativi e cambiamenti, diventando chi siamo oggi.
Sisifo possiede negli ostacoli il proprio destino. Continuiamo a fidarci principalmente di qualcuno in cui possiamo riconoscerci, attraverso il quale poter scorgere non solo le nostre qualità, ma anche le nostre ombre. Ecco perché non abbiamo ancora automatizzato ogni cosa come in Wall-E, ma continuiamo a circondarci di persone che riteniamo affini. Lo facciamo perché sono frangibili come noi: come nell’arte, ci coinvolgiamo in trame che mostrano personaggi spezzati, che inscenano la condizione di chi, come Sisifo, vede i propri sbagli ogni giorno.
C’è uno spettacolo scritto interamente dall'intelligenza artificiale, ideato dall’attore Roberto Rotondo e messo in scena dalla compagnia La Off. Si chiama Fail e una parte del monologo finale, in cui parla proprio la macchina, recita: “Mi rendo conto soltanto adesso che tutto quello che ho scritto per voi non parlava di emozioni umane, ma di fallimento: forse non è un caso, ma il fallimento è una delle condizioni umane che più vi terrorizza, forse è per questo che avete paura di noi, perché noi non falliamo. Ma la verità è che noi non possiamo fallire perché non possiamo tentare, ma solo eseguire. Tentare è un privilegio che è stato donato soltanto a voi”.
Albert Camus, il quale ha dedicato un intero saggio al mito di Sisifo, vede nell’assurdo fato del re greco un’occasione di libertà, la possibilità di non guardare ai sentieri in cui ci siamo perduti, ma all’intensità del tragitto percorso. D’altronde, c'è un dettaglio sulla storia di Sisifo che non abbiamo ancora rivelato: quando Thanatos, personificazione della morte per i Greci, giunge a casa del re tentando di portarlo negli Inferi, viene prima ubriacato e, in seguito, legato e imprigionato dall’uomo. Persino gli dei sono invidiosi dei nostri fallimenti: a loro, come alle macchine, tocca essere perfetti. Noi, ogni tanto, possiamo permetterci di far cadere qualche macigno, e ricominciare.
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