Solo poche settimane dopo l’uscita in sala, il film più celebre del regista riminese aveva già sollevato una forte resistenza, soprattutto da parte degli ambienti cattolici e neofascisti. Secondo il giornale, però, era l’ipocrisia della classe dirigente il reale problema

Dalla parte di Fellini, nel processo morale a “La dolce vita”

Un dibattito acceso e polarizzato aveva accompagnato “La dolce vita” fin dalla sua prima proiezione, a Milano il 5 febbraio 1960. Erano soprattutto i cattolici borghesi della democrazia cristiana e i rappresentanti della nuova estrema destra, che L’Espresso chiama sempre fascisti, a sentirsi profondamente offesi dal lungometraggio. La sinistra politica e culturale, al contrario, aveva preso le difese di Federico Fellini lodando il suo tentativo di immortalare «la putredine sociale» di un’Italia che nel dopoguerra si sognava diversa e più moderna, ma che in realtà restava sempre un Paese «intorpidito dalla sensualità, dall’avidità e dalla superstizione». A “La dolce vita” fu dedicata perciò la copertina del 14 febbraio 1960, che rimandava anche alla critica interna di Alberto Moravia a pagina 23. Una fotografia di Anita Ekberg accompagnava il titolo “I responsabili della dolce vita”. Il testo, senza firma e quindi attribuibile al direttore Arrigo Benedetti, sottolineava l’ipocrisia della classe dirigente che, secondo il giornale, preferiva tacere e fingere di non vedere le realtà scandalose, pur esistenti in tutta Italia e non solo nella Roma protagonista dell’opera. L’Espresso nello specifico chiamava in causa se stesso, come giornale di sinistra e come giornale libero nell’Italia libera, creando un parallelismo tra la propria visione e quella di Fellini. Due sguardi che desideravano ugualmente svelare il marciume dei costumi e delle istituzioni. Solo che Fellini - si legge in copertina - lo faceva esponendo la «superficie, la muffa della società corrotta». L’Espresso, si intende, agiva e ha continuato ad agire più in profondità.

 

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