«Cosa rimane di una stagione di coraggio?» scriveva il direttore Arrigo Benedetti sulla prima pagina de L’Espresso del 17 giugno 1956. La sua era una riflessione morale, quasi personale, sul carattere dei cittadini romani, che «con rapidità passano dall’eroismo (post-bellico) all’indifferenza» totale. La gravità delle accuse rivolte dal giornale con l’inchiesta “Capitale corrotta = nazione infetta” - affermava Benedetti - era stata sufficiente a incrementare la tiratura di copie de L’Espresso ma non a risvegliare nei cittadini romani un senso di giustizia e ribellione che qualsiasi altro abitante di una grande capitale europea, come Londra o Parigi, avrebbe già manifestato da tempo. Rischiava perciò di restare uno slogan di successo, senza riuscire a penetrare nella coscienza civile. Riprendendo inoltre uno dei temi di cronaca di quei giorni, Benedetti scriveva: «Fosse stato romano Franco Percoco, forse in questi giorni saremmo stati dominati nuovamente dalla terribile sensazione della giustizia collettiva. Ma la sorveglianza della vita pubblica non è nel genio degli abitanti vecchi e nuovi della capitale». L’immagine di Percoco, che a fine maggio del 1956 aveva ucciso il padre, la madre e il fratello minore, campeggiava nel taglio alto della prima pagina del 17 giugno, con il rimando all’articolo interno di Salvatore Bruno. Lo studente barese fu l’esecutore di una delle prime e più note stragi familiari in Italia, che segnò il futuro racconto della cronaca nera sui giornali. Lo spazio dato all’immagine dell’uomo, chino su una sedia dopo l’interrogatorio, costituiva una foto-notizia a sé, ovvero una delle tre parti della copertina, completata infine dall’articolo sulla seconda corsa elettorale di Dwight “Ike” Eisenhower. Il presidente statunitense uscente, che a novembre del ’56 fu effettivamente riconfermato per un secondo mandato, fu spinto infatti con insistenza dal partito repubblicano a ripresentarsi alle elezioni, nonostante la salute fragile di cui si parla nell’articolo.